Il Druidismo

 

considerazioni

 

Vorrei premettere che le considerazioni che seguono sono il frutto di una riflessione esclusivamente personale, e lasciare chiunque altro libero di correggere/contestare/commentare, con la consapevolezza che ci muoviamo in un campo estremamente arduo: si tratta di richiamare in vita non solo una tradizione interrotta da due millenni, ma una tradizione che ha sfortunatamente lasciato dietro di se ben poche tracce documentali, un’impresa alla quale è impossibile accostarsi senza umiltà.
Vorrei cominciare con una considerazione di tipo etimologico: gli autori classici facevano derivare la parola “druido” dal greco druos, “quercia” (non “albero” come viene talvolta tradotto, che in greco è dendron). Onestamente, un simile etimo mi sembra inverosimile, perché, per prima cosa, sappiamo che gli autori latini classici erano assai disinvolti nel proporre le etimologie più inverosimili, senza alcun rigore filologico (d’altra parte la filologia nasce appena nel XV secolo); secondariamente, è ben vero che querce ed alberi in genere erano sacri per gli antichi druidi, ma non più di qualsiasi altra manifestazione, animale o vegetale della vita, semmai è di una sacralità della natura che si dovrebbe parlare; terzo, mi sembra improbabile che gli antichi Celti usassero per designare una figura così importante nella loro cultura e nella loro società, una figura, se mi si passa l’espressione, così celtica, una parola straniera.
Onestamente, mi sembra più verosimile l’altro etimo che viene talvolta proposto, quello che fa risalire “druido” a dru “molto” – wid “vedere”. Il druido è “colui che vede molto”: per essere un druido occorre in primo luogo essere un uomo saggio con un’ampia esperienza della vita ed una profonda conoscenza della natura (ed è la ragione per cui il druido appare a volte con i tratti del mago), ed è in base a ciò che i druidi sono chiamati a scegliere e consacrare i capi tribù ed a dirimere le questioni frequenti fra una tribù e l’altra (la società celtica ci può apparire per alcuni versi un po’ anarchica, essendo stati i Celti sempre gelosi della loro libertà ed insofferenti di poteri burocratici e distanti, calati dall’alto); sappiamo infatti che per diventare druidi occorreva un lungo apprendistato, dopo aver superato una rigida selezione.
Questo non significa che il druido non fosse una figura sacrale, ma l’analogia con il prete cattolico o cristiano (che rappresenta un po’ il modello in base al quale, da due millenni in qua ci siamo abituati a leggere la figura dell’ “uomo sacro”), è con tutta probabilità fuorviante. Noi non dovremmo dimenticare che la separazione fra sfera civile e sfera sacrale è una distinzione introdotta dal cristianesimo, che per l’uomo dell’antichità la comunità cui appartiene è sacra, tenuta insieme da legami che sono allo stesso tempo civili, umani e religiosi. Se questo non fosse sufficientemente chiaro, ci si può rifare una volta di più alle parole del filosofo Massimo Cacciari che mi è già capitato di citare in un mio recente articolo, nelle quali il pensatore – sindaco di Venezia fa un quadro sorprendentemente onesto di quel che il cristianesimo ha tolto all’umanità in genere ed alla cultura europea in particolare:
“Ethos non indicava comportamenti soggettivi; indicava la "dimora", l'abitare in cui ogni uomo si trova alla nascita, la radice a cui ogni uomo appartiene. In questo senso, un greco non era più o meno "etico" per sua scelta o volontà. Egli apparteneva a un ethos. A una stirpe, a un linguaggio, a una polis. Che non era stato lui a scegliere (…).
Ogni società tradizionale ha, o meglio è, un ethos. Ogni società tradizionale, come un albero rovesciato, ha la sua radice nella legge divina, nel nomos. La legge della polis, dice Erodoto, è l'immagine di Dike [la dea della Giustizia]. Un ethos impone all'uomo valori che non è lui a scegliere, a decidere, ma a cui appartiene”.
Un druido era un “uomo sacro” in modo non diverso da ogni “pater familias” nel momento in cui questi celebrava i riti familiari in onore degli antenati, salvo il fatto che questa sacralità non era una funzione accessoria, e che era chiamato ad essere “padre” non di una famiglia ma di una comunità.
Questo, tuttavia, era bastevole a fare di lui un uomo non meno ma più sacro di un prete cristiano. La differenza, nella sostanza è questa: un prete è tale in virtù di un’ordinazione, un “deposito” che ha ricevuto che non ha nulla a che fare con le sue qualità intrinseche: un prete può essere l’ultimo dei cretini, essere ladro o pedofilo, rimane sempre tale.
Vorrei illustrare un fatto che consente di cogliere bene questa differenza. Ricordo che il mio insegnante di religione durante la scuola media spiegava a noi pargoli che nonostante le persecuzioni degli imperatori pagani (molto più blande e sporadiche di quelle, queste ultime si davvero spietate, messe in atto dai cristiani una volta preso il potere, ma questo, ovviamente, si guardavano bene dal dircelo) “mai nessuno” aveva rinnegato la fede di Cristo per tornare agli antichi dei. Povero cocco! In realtà il problema dei “lapsi”, dei rinnegati fu un problema enorme con il quale la Chiesa dovette confrontarsi da Costantino in poi: si ha l’impressione che appena scattava una “persecuzione”, la maggior parte dei cristiani si affrettasse a bruciare il proprio granello d’incenso davanti alla statua dell’imperatore, per poi tornare ad inginocchiarsi ai piedi della croce appena la “persecuzione” passava, preti compresi, tranne un ristretto gruppo di fanatici che andava a cercarsi il martirio.
Nel IV secolo, dopo che la Chiesa aveva preso il potere grazie alla conversione di Costantino, un gruppo di cristiani intransigenti, i Donatisti, rifiutava la validità dei sacramenti impartiti da un prete “lapso”. Peggio che mai, i Donatisti solidarizzavano con i circellioni, i braccianti agricoli che erano vessati dai grandi proprietari terrieri e versavano in condizioni di vita miserande: insomma, come se non bastasse la faccenda dei preti lapsi, avevano preso sul serio le parole evangeliche a favore degli umili e dei diseredati, invece di considerarle il semplice tema propagandistico che in effetti erano: costoro erano dunque degli eretici assai pericolosi di cui la Chiesa doveva sbarazzarsi al più presto, soprattutto in un momento in cui cercava di radicarsi fra l’aristocrazia senatoria e la burocrazia imperiale: Fortunatamente (?) in difesa dell’ortodossia si schierò prontamente il migliore intellettuale di cui la Chiesa disponesse a quel tempo, Agostino di Tagaste, poi sant’ Agostino.
Quest’ultimo, invero, è a sua volta un personaggio piuttosto interessante. Educato nel cristianesimo, lo abbandonò rendendosi conto della contraddizione della concezione cristiana (in realtà della contraddizione di ogni monoteismo): come può un mondo pieno di male, di sofferenza, d’ingiustizia, essere la creazione di un Dio onnipotente ed infinitamente buono? Agostino aderì al manicheismo, dottrina che fondeva il cristianesimo con l’antica religione zoroastriana, e vedeva il mondo come un campo di battaglia fra una divinità del bene e una divinità del male dotate di poteri equivalenti, poi tornò a farsi cristiano: i manichei potevano avere una posizione più solida sul piano intellettuale, ma era chiaro che la Chiesa stava vincendo la sua battaglia in forza della sua superiorità organizzativa e del potere che si era conquistata, ed è sempre bene trovarsi sul carro del vincitore.
Retrospettivamente, possiamo dire che la Chiesa fece una scelta molto saggia: se avesse allontanato dalle sue fila i preti “lapsi” o spergiuri, ladri, lussuriosi, pedofili o comunque indegni, si sarebbe trovata molto presto a corto di personale.
Noi comprendiamo facilmente che dal nostro punto di vista la questione non si pone nemmeno: un druido “lapso” o moralmente meno che irreprensibile, smetterebbe con ciò stesso di essere un druido.
Abbiamo visto che un druido non era esattamente un “sacerdote”, se con questa parola abbiamo in mente soprattutto il prete cristiano, ed il suo ruolo non coincideva neppure con quello del mago interpretato in senso restrittivo (cioè colui che svolge “operazioni” con le forze spirituali, ma in senso puramente tecnico): se dobbiamo avvicinarlo ad una figura della cultura classica, quella che più gli si attaglia non è quella del filosofo, ma quella del “savio”, del “sapiente”.
Con ogni probabilità, è possibile aggiungere da questo punto di vista, proprio la “supervisione” esercitata dai druidi sulla vita delle tribù celtiche, rappresenta storicamente ciò che più si avvicina nelle realtà concreta all’ideale del “governo dei sapienti” espresso da Platone nella “Repubblica”.
Come è noto, l’antico mondo greco considerava la sapienza per l’appunto in termini sacrali, non semplice saggezza, ma un appellativo che la tradizione ellenica riconobbe solo a sette personaggi, e fra questi uno solo di coloro che gli storici moderni annoverano fra i filosofi, ossia Talete. Il maggiore dei “sette savi” fu con ogni probabilità Solone, legislatore ateniese e nonno del filosofo Platone. Delle dottrine dei “sette savi” nulla è stato tramandato in forma scritta, tuttavia il celebre episodio dell’incontro di Solone con Creso ci dà un’idea piuttosto precisa almeno dell’etica del sapiente/legislatore.
Creso, il re di Lidia il cui nome era destinato a diventare sinonimo di ricchezza ed al quale si attribuisce l’invenzione della moneta, dopo aver mostrato a Solone le proprie ricchezze, gli chiese se era convinto che egli fosse felice, ed il saggio ateniese rispose negativamente, e Creso gli chiese allora di indicargli qualcuno più felice di lui. Solone fece il nome di un cittadino ateniese qualsiasi, dalla vita modesta e virtuosa, stimato dai vicini, benvoluto da amici e parenti e che, avendo ben educato i suoi figli, costoro erano cresciuti rispettosi ed obbedienti.
Non ci è stato tramandato in quale modo Creso congedò Solone, ma anni dopo egli mosse guerra a Ciro, il re dei Persiani, una guerra breve e disastrosa nella quale i Lidi furono rapidamente sconfitti. Catturato dai Persiani, Creso stava per essere messo a morte, e si mise ad invocare il nome di Solone, avendo finalmente compreso la saggezza del suo insegnamento. Colpito da quest’invocazione, Ciro volle conoscerne il significato, e Creso gli raccontò dell’incontro che aveva avuto con il sapiente greco. Il gran re dei Persiani perdonò Creso e gli restituì il dominio della Lidia anche se non più come sovrano indipendente, ma come suo governatore, pago di poter godere della sua amicizia e del riflesso, potremmo dire, della saggezza di Solone.
Il significato dell’episodio è molto chiaro: noi dobbiamo cercare di vivere secondo virtù prima di tutto in vista della nostra felicità, del nostro vivere bene su questa Terra; con ogni probabilità un druido sarebbe stato pienamente d’accordo su ciò, ma cosa significa virtù?
La cosa interessante è che nella cultura europea nell’antichità e in tutta l’Età di Mezzo, il “cristiano” medio Evo, si è conservato un concetto di virtù che è in antitesi con il cristianesimo: ne troviamo ancora traccia nei “bestiari”, negli “erbari”, nei “lapidari” medievali, dove si parla delle “virtù” degli animali, delle erbe, dei minerali, “virtù” significa “qualità”, “proprietà”, per così dire esplicitazione della propria natura; lo stesso concetto lo troviamo nello stoicismo di solito considerato a torto una filosofia dell’esaltazione della sofferenza, il concetto di oikeiosis, “accrescimento”: l’uomo virtuoso è colui che persegue ciò che serve ad accrescere, a perfezionare, a rendere sempre più esplicita la propria natura: il sapiente deve cercare di crescere in saggezza, il guerriero di essere un combattente sempre migliore, l’artigiano sempre più abile nella propria arte, e tutti quanti abbiamo il dovere di avere cura di sviluppare ciò che specificamente ci rende umani.
Questo concetto, si noti, è un concetto non cristiano di virtù: la virtù cristiana esige l’andare contro la propria natura che si suppone corrotta dal peccato originale, calpestare le proprie inclinazioni ed i propri istinti, la rinuncia alla felicità nella vita in cambio della speranza di una felicità ultraterrena. Chi ha portato la morale cristiana alle estreme conseguenze, è stato probabilmente Immanuel Kant con il suo concetto dell’imperativo categorico: se io sono buono e generoso verso i miei simili per tendenza naturale, ciò non ha alcun valore, perché non lo faccio che per appagare la mia inclinazione; ne consegue che, cristianamente parlando, posso essere buono soltanto se possiedo un’indole malvagia; sarà per questo che due millenni all’ombra della Croce hanno alimentato ogni sorta di sadismo: fustigatori dei costumi, misogini malati di avversione verso la sessualità e verso la metà femminile del genere umano, inquisitori, cacciatori di eretici e di streghe, crociati e conquistadores in cerca di conversioni a fil di spada.
Il druido è assimilabile alla figura del “sapiente”, a condizione però di avere presente la distanza fra questa e quella del filosofo. Quelli che i manuali di storia della filosofia etichettano come i primi filosofi, ossia coloro che appartennero al periodo precedente la sofistica e Socrate, definivano se stessi fisiologoi, ossia “indagatori della natura”, l’equivalente, potremmo dire, della figura moderna dello scienziato; fra costoro, al solo Talete la tradizione ha attribuito in più il titolo di “sapiente”, eppure fra costoro non mancano spunti di riflessione etica che possiamo definire saggezza. Personalmente, ho sempre trovato di grande interesse, ad esempio, questa riflessione di Democrito:
“Preferisco vivere libero e povero, piuttosto che essere uno schiavo ricoperto d’oro sotto una tirannide”.
Se vivi sotto una tirannide, non puoi nemmeno dire di essere ricco e sei solo “uno schiavo ricoperto d’oro”, poiché il tiranno può in qualsiasi momento toglierti a suo arbitrio ciò che ritieni tuo.
Che quella dei sofisti fosse solo un’arte del bel parlare, una saggezza apparente, è stato riconosciuto fin dall’antichità. Il primo ad usare il termine “filosofo” ossia “amante della sapienza” in riferimento a se stesso, è stato Platone, ma attenzione, fa notare Giorgio Colli (forse uno dei più profondi conoscitori dell’antica cultura greca), Platone usa questo termine nel senso di una sapienza andata perduta da recuperare; l’idea di una “sapienza” interamente nuova da inventare nasce con Aristotele che è il primo filosofo nel senso moderno del termine, e con lui siamo già all’epoca di Alessandro Magno, alla nascita dell’ellenismo, alla sparizione della cultura ellenica in un “moderno” e sradicato cosmopolitismo, in un’accozzaglia di culture dalle quali doveva nascere il cristianesimo come negazione del radicamento dell’uomo in un ethos ed in un nomos (secondo la penetrante analisi di Cacciari).
A questo scardinamento delle tradizioni e dei valori del mondo antico, i filosofi, come abbiamo imparato ad intenderli da Aristotele in poi, hanno dato il loro bravo contributo. Faceva notare Cicerone che, poiché fra costoro una stravaganza originale è più pregiata del ripetere una verità detta da altri, sembra che facciano a gara a chi riesce a proporre le idee più assurde; non è certamente questo il modello a cui dobbiamo guardare per ritrovare qualcosa dell’antico sapiente o druido.
La risposta alla domanda sulla misura nella quale è possibile recuperare qualcosa dell’antica saggezza druidica, dipende dalla risposta ad altre due domande: in quale misura il “sapiente” può tornare a sostituire il filosofo, ed in quale misura è possibile oggi la ripresa di una religiosità pagana; le due questioni sono però strettamente collegate.
Vorrei qui ribadire un concetto sul quale mi sono già soffermato, ma che a mio parere è della massima importanza: la vittoria del monoteismo cristiano sulle religioni antiche non dipese in alcun modo dalla sua presunta “superiorità teologica”. L’idea che il mondo che abbiamo davanti, con il suo contenuto illimitato di disarmonia, male e sofferenza, sia il prodotto della creazione di un unico Dio onnipotente ed immensamente buono, non solo è contraddittoria, ma costringe l’uomo ad un umiliante autoflagellamento, a vedersi infame e miserabile oltre ogni limite per trovare in se stesso l’origine di quel male che non può/non vuole attribuire a “Dio”. Se ci sforziamo di uscire dai cavilli e dalle mistificazioni di teologi e catechisti, è difficile al riguardo non condividere l’affermazione dello scrittore Stefano Benni, che “Dio ci fa più bella figura se non esiste”. Del resto, a questo riguardo, vale il parere degli stessi teologi cattolici che parlano di misterium iniquitatis; ossia, in un contesto monoteistico, l’origine del male è un mistero, un rebus senza soluzione: attribuirla a Satana, ad un “avversario” che, in quanto creatura, trae anch’esso origine da Dio, sposta il problema ma non lo risolve.
Due millenni di monoteismi “storici” (se prescindiamo dal più antico di essi, che non ha mai coinvolto più del 2 - 3 per mille dell’umanità ed è rimasto rigorosamente una religione etnica) sono stati due millenni di fallimenti che se non hanno dato una spiegazione al problema del male, ne hanno pesantemente aggravato il fardello sulle spalle dell’umanità, e l’ultimo dei “quattro impostori” monoteisti (Mosè, Cristo, Maometto e Marx), quello la cui dottrina doveva realizzarsi sul piano storico, avendo come Dio la Storia, come messia il proletariato, come paradiso il Socialismo, è quello che ha scontato nel più breve tempo il fallimento peggiore e seminato i maggiori lutti insanguinando un intero secolo, ma non è che cristianesimo ed islam se la passino tanto meglio: il cristianesimo è oggi in una fase tangibile di decadenza e senilità; al confronto, l’islam (che ha sette secoli di meno) appare giovanile e battagliero, carico di energie ed in una fase espansiva, ma non ci vuole molto ad accorgersi che questo suo dinamismo non è altro che la virulenza di una malattia epidemica: i sintomi sono gli stessi del cristianesimo dei “secoli bui", l’intolleranza, l’odio per la libertà e l’uso della ragione, il disprezzo per la vita che si esprime nell’avversione per la sessualità e nella condizione d’inferiorità imposta alla donna; il problema è quanto potrà durare la sua fase aggressiva e quanti danni potrà fare, ma di sicuro è destinato a perdere il suo confronto con l’Europa.
La crisi dei monoteismi sta forse cedendo il passo ad una rinascita del paganesimo su scala planetaria; a questo proposito, ecco cosa affermava Christopher Gerard, direttore della rivista “Antaios” (fondata da Ernst Junger e Mircea Eliade – e scusate se la creazione d’intellettuali di questo calibro è poco -; e non si dovrebbe mancate di sottolineare che “Antaios” è membro del Centro Mondiale delle Religioni Etniche, il che è come dire la voce più autorevole del paganesimo europeo) in una memorabile conferenza tenuta il 15 maggio 1997:
“Oso affermare che il Paganesimo sta per diventare di nuovo la prima religione del mondo. Infatti, se si considerano gli Induisti, gli Scintoisti, i Taoisti, gli animisti e gli adepti - sempre più numerosi - dei culti precristiani d'Europa o delle Americhe (si pensi alla spettacolare rifioritura dello sciamanesimo nell'ex URSS), dei culti preislamici (Zoroastriani delle regioni turcofone) e persino pregiudaici (penso in particolare ad un gruppo di Ebrei americani che desidera ritornare ai culti politeisti degli Ebrei), si rischia davvero di arrivare a un totale approssimativo di millecinquecento milioni di persone. Il che ne fa, o ne farà presto, il primo gruppo religioso del pianeta. Due potenze nucleari, l'India e la Cina, sono politeiste - una sotto orpelli modernisti, l'altra sotto orpelli marxisti. In piena Pechino si costruiscono templi taoisti, e l'Induismo è divenuto offensivo, dal momento che missioni indù s'installano ai quattro angoli del mondo”.
La differenza fra le religioni monoteiste – semitiche (ebraismo, cristianesimo, islam, marxismo) ed il paganesimo come mi sembra noi lo possiamo intendere, è però piuttosto di tipo etico che non teologico. Il compito che il moderno druido si può prefiggere (che il druido si può prefiggere oggi, perché, se non sono completamente fuori strada, non è che la differenza fra druidi antichi e moderni sia poi così profonda) è precisamente quella di riannodare quel legame fra dimensione sacrale ed umana e civile, quell’ethos e quel nomos che il cristianesimo ha reciso; riscoprire in altre parole la sacralità della vita e dell’uomo e delle comunità umane come parte di essa: ammettiamolo esplicitamente, il paganesimo come noi l’intendiamo è una religione (la religione) dell’immanenza.
Se Dio è morto, ucciso, non come voleva Nietzsche dal suo amore per gli uomini, ma dal suo disamore per loro, se il fantasma del Dio unico è stato esorcizzato dall’impossibilità di rendere conto del male nel mondo, come sarà possibile credere agli dei?
Allora diciamolo esplicitamente, credere è cosa da cristiani (da ebrei, da mussulmani, da marxisti), non da noi. Cosa significa credere? Null’altro che imporre delle limitazioni al proprio intelletto, sforzarsi di respingere ciò che sappiamo essere vero per rispetto ai pregiudizi morali che ci sono stati inculcati, voler pensare che la lepre rumina perché, contrariamente all’evidenza, così è scritto in un libro vecchio di tremila anni, respingere la cosmologia moderna, Copernico e Galileo perché la Terra, il luogo dell’incarnazione divina non può essere un luogo qualsiasi nell’universo, negare la continuità delle forme viventi nel grande disegno dell’evoluzione, perché sempre in quel testo vecchio di tremila anni è detto che Dio creò le diverse specie separatamente, ciascuna “secondo la sua specie”, è voler attribuire al “libero arbitrio” ed al peccato umano tutti i mali del mondo, comprese epidemie e terremoti per assolvere a tutti i costi un Dio che si suppone onnipotente ed immensamente buono, è sforzarsi di non vedere, è accecamento volontario, è il contrario esatto di ciò che significa druidismo, se è vero che il druido è “colui che vede molto”.
Non c’è bisogno di “credere”, al contrario, occorre liberarsi dal “modello del credente”, perché se l’esistenza non ha doppifondi soprannaturali, non può essere svalutata come “profana” nei confronti di una trascendenza ipotetica, è essa stessa ad essere sacra, e se abbiamo capito questo, il problema dell’esistenza “reale” o “simbolica” delle divinità cessa di avere significato; l’ha messo molto bene in rilievo il professor Gerard, del cui – magnifico – intervento cito qui un altro ampio stralcio:
“Il Paganesimo non è mai potuto morire: perché, a immagine e somiglianza delle innumerevoli divinità che popolano i suoi innumerevoli pantheon, esso non è mai nato. Se le sue forme antiche (liturgie, templi...) hanno ceduto il passo ad altre che pure vi si sono largamente ispirate, tuttavia restano gli archetipi, che sono essi stessi eterni (...)
Per meglio comprendere questa visione pagana del mondo, è indispensabile superare i blocchi mentali (…)indotti dal modo di pensare giudeo cristiano. (…)Il Paganesimo è soprattutto una conversione dello sguardo, quello che si rivolge su di un universo del quale noi siamo, insieme alle Dee e agli Dei, una parte integrante. Per meglio assimilare questa visione pagana, questo sguardo pagano, dobbiamo liberarci dal modello del "credente" delle religioni abramiche. Questo termine è realmente privo di senso per un Pagano: egli non crede, aderisce. Allo stesso modo, egli non si converte ad un'altra religione, che sarebbe l'unica vera (e che negherebbe ipso facto tutte le altre perché false, barbare o rozze). Semplicemente, il Pagano ridiviene quello che è sempre stato, perché l'anima è naturalmente pagana. Anima naturaliter pagana.
Liberarsi, dicevo, dal modello del credente. Uno che crede di potersi assicurare la salvezza individuale ed eterna quaggiù e nell'aldilà, in seno ad una Chiesa che, di fronte agli "infedeli" e ad altri eretici, deterrebbe essa sola il monopolio del Vero e del Bene, e che sarebbe l'unica abilitata a conferire al credente i sacramenti che fanno di lui un "fedele" in opposizione agli infedeli", gli altri.
La nostra visione non è dualista, e noi respingiamo come prive di senso le opposizioni artificiali fra Dio creatore e creature, cielo e terra, anima e corpo, credenti e non credenti, ortodossi ed eretici ecc. Il Paganesimo è olistico, non dualista, e il nostro cammino è soprattutto ricerca di legami più che di rotture. I nostri Dei non sono persone, con le quali stabilire relazioni personali, ma Potenze. Essi incarnano la pienezza dei valori positivi: bellezza, splendore, forza, giovinezza...”.
I valori, l’etica e, come spiega il professor Gerard, “la conversione dello sguardo” possono e debbono essere quelli del paganesimo e del druidismo antichi, ma la visione scientifico/cosmologica sarà quella di oggi: non ha alcun senso richiamare in vita, ad esempio pratiche rituali legate a concezioni superate dalla nostra conoscenza del mondo, perché i druidi antichi lo facevano in un contesto che di necessità non era il nostro; ad esempio far passare il bestiame fra i fuochi per scongiurare le epidemie quando nulla si sapeva dei microrganismi, perché, e questo è un punto essenziale, quello che ci dovrebbe interessare non è una rievocazione storica, tanto meno una mascheratura carnevalesca, ma una spiritualità adeguata all’età presente.
Se ci guardiamo intorno, con umiltà ma senza paura, e facciamo nostri gli insegnamenti della moderna ricerca scientifica, avremo una sorpresa: essi vanno indubbiamente contro quella visione cristiana che, come ha scritto uno dei più interessanti autori del XX secolo, un’anima naturaliter pagana, H. P. Lovecraft, “Induce a volgere verso terra gli occhi velati”, ma sono in ultima analisi in piena sintonia con il nostro spirito pagano e druidico. Pensiamo alla moderna cosmologia. La Chiesa cattolica, nel condannarla e nel processare Galileo, fu assolutamente coerente, poiché essa spiazza la Terra – il luogo dell’incarnazione, del Dio fatto creatura – dalla posizione centrale dell’universo, ma sentirci parte di una realtà, di un esistere, di un Cosmo in cui non abbiamo un ruolo centrale e privilegiato e che ci trascende enormemente per dimensioni, non ci toglie nulla e ci dà in più il senso della vastità della natura che per noi è sacra.
La teoria darwiniana dell’evoluzione non contrasta solo con la lettera del testo biblico, ma se l’ordine, forme altamente complesse possono sorgere mediante la selezione dal caso, allora un Dio creatore e progettista della vita diventa un’ipotesi non necessaria, è un colpo di falce che s’infigge profondamente alle radici del cristianesimo. Se la Chiesa cattolica fa finta di non accorgersene a differenza delle sette protestanti (nonché dell’ebraismo ortodosso e dell’islam, del pari antievoluzionisti), è unicamente perché scottata dal caso Galileo, preferisce far conto sul fatto che nei paesi latini si tende a non attribuire alla cultura scientifica la dovuta importanza. Per noi, la parentela fra l’uomo e tutte le altre forme viventi è una riprova in più: noi facciamo parte del mondo naturale, non siamo un ibrido di natura e super natura, esseri scissi, fantasmi dentro una macchina. I concetti di lotta per la sopravvivenza, di selezione, con quel che di implicitamente aristocratico che contengono, sono il migliore antidoto al pietismo cristiano, all’implicita preferenza per tutto ciò che è debole e malriuscito. Possiamo parlare di forza, bellezza, salute senza che questo implichi un estetismo decadente; fino a prova contraria, i decadenti, gli alfieri della decadenza, sono loro, i cristiani.
Se avremo capito tutto questo, allora comprenderemo che quando parliamo di paganesimo e di druidismo, parliamo del passato, ma forse è ancor più del futuro che stiamo parlando.

 

Darwin e noi

 

Il 12 febbraio è stato l’anniversario della nascita di Charles Darwin, il grande naturalista che nel 1859 formulò la teoria dell’evoluzione esposta nel libro L’origine della specie. Da circa un decennio in varie parti del mondo e per la seconda volta anche in Italia, il 12 febbraio è diventato il Darwin memorial day con svariate iniziative aventi lo scopo di commemorare ma anche di propagandare la figura del naturalista inglese del XIX secolo e la sua opera, la sua teoria.
Negli stessi giorni, un sondaggio svolto negli Stati Uniti ha rivelato che la maggioranza degli Americani non crede nella teoria dell’evoluzione, o meglio, le antepone il dogma biblico; né, data la ventata fondamentalista che oggi percorre l’unica superpotenza rimasta su questo pianeta, c’era da aspettarsi che le cose stessero in maniera diversa.
Bisogna notare che l’idea evoluzionista, la possibilità di correlare tutti i fenomeni vitali secondo una precisa logica, è precisamente ciò che dà un senso a tutta la biologia, rende una visione scientifica coerente quelle che altrimenti sarebbero solo delle osservazioni disparate ed episodiche, non si può prescindere da essa senza cancellare la biologia come scienza, per dirla con le parole di Peter Medawar, premio nobel nel 1962:
“L’ipotesi evoluzionista fa parte del tessuto concettuale della biologia. Solo essa dà un senso alle evidenti interrelazioni tra gli organismi, ai fenomeni dell’ereditarietà e ai vari tipi di sviluppo: per un biologo, in alternativa al pensare in termini evoluzionistici, non c’è che il non pensare affatto” (1).
Noi tutti siamo appassionati di cultura celtica, ma siamo anche molte altre cose; siamo persone – si suppone – sensate e ragionevoli, come persone sensate e ragionevoli, abbiamo un ovvio interesse a che il cieco dogmatismo ispirato dal fanatismo religioso non prevalga sul pensiero scientifico a base razionale; siamo europei, gelosi difensori e custodi della nostra identità culturale e storica, che non gradiscono né il fatto che oggi l’Europa sia subalterna ad un potere straniero, né che la sua cultura e la sua identità si perdano nel mare magnum della globalizzazione. Se Darwin è tanto inviso ai nostri padroni americani, e soprattutto allo strato meno acculturato, più rozzo, più lontano dalla sensibilità europea – dalla quale il mondo yankee deriva in forma degenere – allora potrebbe già valere il detto che “il nemico del mio nemico è il mio amico”, ma io vorrei chiarire qui un altro punto: la questione pro o contro la teoria evoluzionistica ci interessa o ci dovrebbe interessare in quanto appassionati di cultura celtica, di persone che si riconoscono spiritualmente nel mondo celtico?
Altra questione non meno importante: i fondamentalisti protestanti – testimoni di Geova in testa, ma non solo loro – sostengono l’inconciliabilità della teoria evoluzionista con il dogma biblico e propendono per una lettura letterale di quest’ultimo, mentre la Chiesa cattolica ha al riguardo un atteggiamento molto più accomodante. Chi ha ragione e chi ha torto? La religione nata duemila anni fa tra la Fenicia e il Sinai e che ha poi scalzato le fedi tradizionali dell’Europa, grazie soprattutto alla manu militari, alla violenza, ai roghi delle presunte streghe e dei presunti eretici, può essere messa in crisi, svelare la sua falsità nel confronto con il pensiero del naturalista inglese?
Cominciamo da questo secondo aspetto, ed una cosa appare subito chiara, che è proprio l’atteggiamento transigente assunto dalla Chiesa cattolica nei confronti della concezione evoluzionista ad essere un’anomalia che richiede di essere spiegata, nel contesto dei fondamentalismi monoteistici, poiché, appunto, la teoria darwiniana trova una profonda incompatibilità non solo nel protestantesimo radicale, ma anche nell’ebraismo ortodosso e nell’islam.
A mio parere, al riguardo, l’atteggiamento cattolico trova spiegazione non in una maggiore compatibilità del cristianesimo cattolico con il pensiero moderno ad indirizzo scientifico rispetto ad altre forme di monoteismo, ma in due circostanze storiche precise; l’esperienza che la Chiesa cattolica ha fatto con il caso Galileo, e che le ha dato quanto meno la lezione della scarsa convenienza dell’impelagarsi in uno scontro frontale con il pensiero scientifico e – cosa probabilmente più importante – il fatto che la varietà cattolica del cristianesimo è diffusa soprattutto nei Paesi latini dove avviene che, a differenza di quelli germanici od anglosassoni, l’importanza della scienza in termini di visione del mondo è in genere sottovalutata a favore di una cultura sedicente umanistica, ossia prevalentemente giuridica e letteraria.
Se noi pensiamo, in effetti, che il problema del conflitto fra evoluzionismo e monoteismo consista nel fatto che la concezione darwiniana contrasta con la lettera del testo biblico della Genesi, siamo ancora molto alla superficie della questione.
Cerchiamo di comprendere bene questo punto, che è fondamentale: gli esseri viventi sono “macchine” di straordinaria complessità sia in termini di strutture, sia in termini di funzioni che queste strutture sono destinate a svolgere: il più semplice batterio ha una complessità, contiene “un’informazione” di molti ordini di grandezza superiore del manufatto tecnologicamente più avanzato che siamo in grado di produrre, e questa complessità non può essere il prodotto del “semplice” caso. Fino a quando non è stata avanzata una teoria evoluzionista con un meccanismo esplicativo basato sulla selezione naturale, cioè fino a Darwin, nonostante il suo evidente antropomorfismo, l’unica spiegazione possibile di questa complessità, era che essa fosse l’opera di un artefice, di un creatore, per l’appunto, infinitamente abile ed intelligente.
Non il “semplice” caso è all’origine della complessità dei sistemi viventi secondo la moderna teoria evoluzionista, ma il caso, il presentarsi di mutazioni casuali di una struttura - il patrimonio genetico – tendente alla stabilità, più la necessità sotto forma di selezione naturale che conserva le variazioni più adatte alla sopravvivenza ed elimina spietatamente le altre, ed ancora tutto ciò, per produrre la complessità delle forme viventi che vediamo oggi, ha richiesto che questa selezione si sia protratta - ad ogni generazione e ogni giorno – per miliardi di anni. Il caso e la necessità è anche il titolo del testo che è una delle migliori esposizioni della visione evoluzionista moderna risultante dalla confluenza della teoria di Darwin con la genetica mendeliana, del genetista francese Jacques Monod.
Al confronto, possiamo cogliere l’idea monoteista del “divino artefice” per quello che è: un rozzo antropomorfismo.
La teoria evoluzionista, in effetti, distrugge quello che è forse il principale argomento della cosiddetta teologia razionale, l’argomento di Dio come causa prima che occorrerebbe necessariamente postulare.
Se tuttavia ci limitassimo a considerare l’evoluzionismo soltanto come una sorta di ariete per scardinare l’arroganza monoteista, avremmo ancora una visione limitata delle cose.
Siamo sinceri, e siamo espliciti! Se oggi si torna a parlare con tanta insistenza di neopaganesimo, di neoceltismo, di neodruidismo, non è per motivi teologici, ma soprattutto perché la religione maggiormente affermatasi in Europa negli ultimi due millenni sta dimostrando tutta la sua inadeguatezza al mondo moderno soprattutto dal punto di vista etico, in particolare è messa esplicitamente sotto accusa per il fatto di aver diffuso nella cultura occidentale un atteggiamento di arrogante presunzione di superiorità dell’uomo rispetto al mondo naturale.
In quest’ottica ed alla luce di questa nuova consapevolezza, l’evoluzionismo rappresenta qualcosa di più di una “semplice” teoria scientifica, ma è una conquista culturale di estrema importanza: per l’uomo occidentale, esso ha significato riscoprire le sue origini ed i legami profondi con il resto del mondo animale, la rinuncia, almeno nelle componenti più illuminate della nostra cultura, a quell’atteggiamento di arrogante superiorità che per secoli ci ha fatto credere di poter disporre del resto della vita e della realtà naturale a nostro piacimento e senza curarci delle conseguenze che alla fine ci sarebbero ricadute addosso; noi non siamo superiori alla natura e minando l’ambiente mettiamo in pericolo la nostra sopravvivenza, ma non sono solo motivi utilitaristici a spingerci oggi ad una nuova coscienza ambientale, bensì il fatto che sappiamo che ogni specie vivente ha diritto di per sé all’esistenza, si tratta in una parola del raggiungimento di un nuovo livello etico, tuttavia questo, senza la consapevolezza di essere creature naturali imparentate con il resto del mondo vivente, non sarebbe probabilmente stato possibile.
Si può aggiungere che la religione è un atteggiamento profondamente connaturato nell’uomo, e quando, come nel caso del totalitarismo sovietico, ci si è provati ad estirparla con la forza, si è andati incontro ad una resistenza insormontabile, ma man mano che prosegue lo sviluppo della conoscenza scientifica, tanto meno una religiosità di tipo cristiano – monoteista appare credibile: noi saremmo contemporaneamente dei piccoli esseri su di un insignificante pianeta perso in un Cosmo incommensurabile ed i pupilli di un Dio cosmico creatore del tutto che avrebbe creato un universo di dimensioni inimmaginabili soltanto per la nostra trascurabile esistenza? Paradossalmente, il paganesimo con le sue “piccole” divinità “terrestri” ed “umane” da un lato, dall’altro concepente ciò che regge l’universo come una forza trascendente ed impersonale: “il fato”, “il destino”, quella che in termini moderni potremmo definire come “la catena deterministica degli eventi”, ridiventa molto più credibile; noi potremmo allora considerare il monoteismo come un gigantesco abbaglio durato due millenni.
Si può fare ancora un passo ulteriore ed accorgersi che la relazione fra la visione naturalistica del mondo, nonché dell’uomo e del suo posto nella natura, che scaturisce dalla teoria evoluzionista, e la concezione pagana – druidica in primis – per quel che ci è dato di capire, è ancora più stretta di quel che penseremmo, ma per poterlo fare, è necessario prima sgomberare il terreno da alcuni persistenti equivoci che esistono sul significato stesso dell’evoluzione.
Questo discorso non può prescindere completamente dal legame che è stato visto fra la concezione evoluzionista e le diverse concezioni politiche che in qualche modo si è creduto di poterne far derivare, ma poiché, a mio parere, Darwin è stato ugualmente frainteso sia “da destra” sia “da sinistra”, credo che questo discorso si possa sviluppare senza venire meno a quella che è l’apoliticità di Bibrax, dato che, come vedremo, occorre distribuire “la botta” ad entrambe le parti.
In Questa idea della vita, il noto divulgatore scientifico Stephen Jay Gould riferisce che la lettura de L’origine della specie provocò l’entusiasmo di Karl Marx che vi avrebbe visto corroborato il proprio “socialismo scientifico” (che in realtà di scientifico non aveva nulla):
“Nel 1860 Marx scrisse ad Engels a proposito dell’Origine di Darwin: “Per quanto svolto grossolanamente all’inglese, ecco qui il libro che contiene i fondamenti storico – naturali del nostro modo di vedere”.
E’ falso che Marx si fosse offerto, come si vorrebbe far credere introducendo una nota di colore, di dedicare il secondo volume del Capitale a Darwin (e che questi abbia rifiutato), ma i due si scrivevano e Marx aveva un’alta considerazione di Darwin (Ho visto la copia del Capitale che Darwin aveva nella sua libreria a Down House. C’è una dedica di Marx che si definisce sincero ammiratore di Darwin; le pagine del libro sono ancora da tagliare, Darwin non amava molto il tedesco)” (2).
Marx non nutriva dubbi in proposito: l’evoluzione era una cosa “di sinistra” e, secondo una certa mentalità ottocentesca la cosa appariva logica: l’evoluzione culminava nel progresso politico e sociale destinato a portare le plebi al potere, ed il fatto che le Chiese si accanissero contro questa teoria scientifica rendeva ancora più facile saltare a simili conclusioni.
Oggi è piuttosto facile constatare che la teoria evoluzionista di Darwin - se insegna qualcosa in campo politico - è forse la più evidente sconfessione delle idee marxiste.
Cosa ci potrebbe essere di più lontano dallo spirito del filosofo di Treviri del concetto darwiniano di selezione naturale? Dell’idea di una natura che forgia i tipi superiori attraverso l’eliminazione spietata dei malriusciti e degli inadatti? L’importanza di un buon genoma che si accumula e si trasmette attraverso le generazioni, poi, con cosa potrebbe contrastare maggiormente che con l’idea che l’uomo sia in tutto e per tutto foggiato dall’ambiente attraverso l’apprendimento?
Il conflitto fra eredità e ambiente, fra nature e nurture, fra innato e appreso; o meglio sull’importanza da accordare all’uno od all’altro tipo di fattori nel determinare ciò che noi siamo, è uno di quelli che hanno lacerato le coscienze e fatto scorrere fiumi d’inchiostro, in mancanza del sangue, ma proprio il perpetuarsi di questo dibattito nella nostra cultura dimostra forse meglio di qualsiasi altra cosa l’assenza di una mentalità naturalistica.
Come ha scritto Konrad Lorenz: “L’uomo è per natura un animale culturale”. In altre parole, l’enorme flessibilità e capacità di apprendere della nostra specie dipende esclusivamente, è un prodotto della nostra base genetica; ad esempio, il linguaggio è totalmente appreso, come dimostra l’enorme pluralità delle lingue che esistono nel mondo, tuttavia dipende dalla presenza della base genetica umana: al più intelligente dei nostri cani, non possiamo insegnare neanche una parola.
Questa base genetica non è uguale in tutti. Il giorno che avessimo una società che offre davvero a tutti uguali opportunità, non avremmo una società di uguali, ma una società meritocratica; idea detestata dai marxisti, che invece amano e predicano quell’egualitarismo che è il contrario della vera eguaglianza, il letto di Procuste che stira i bassi e taglia le gambe agli alti.
Frainteso a sinistra, il darwinismo lo è altrettanto - o peggio - a destra, e per darvene dimostrazione vi racconterò un episodio.
Non moltissimo tempo fa, capitò che il ministro della Pubblica Istruzione, signora Letizia Moratti, facesse il tentativo di cancellare l’insegnamento della teoria evoluzionista dalle scuole medie, tentativo che, stoppato dalla levata di scudi della comunità scientifica e culturale, fortunatamente non andò oltre.
Capita che in quel periodo vi fosse un insegnante che, cosa strana, senza essere un sottosviluppato mentale, e senza avere le fette di prosciutto sugli occhi, avesse simpatie politiche per la destra radicale, e fosse anche in contatto con diversi forum e diverse mailing list dell’Area. Capita anche che questa persona fosse indignata per il tentativo di Donna Letizia, una evidente piaggeria verso gli Stati Uniti e verso la ventata fondamentalista e neoconservatrice che oggi pervade il colosso americano, e quest’uomo, nella sua ingenuità, pensò che alla parte politica verso la quale andavano allora le sue simpatie, non sarebbe parso vero di avere un’occasione in più di denunciare la dipendenza politica e culturale dell’Europa dagli USA, cosa che la destra radicale ha sempre asserito di trovare quanto meno deprecabile, e fece la fesseria di inviare messaggi ai siti ed alle mailing list con cui aveva contatti, invitando a mobilitarsi contro l’azione censoria di Donna Letizia.
Le reazioni che ottenne furono di due tipi; alcuni lo mandarono al diavolo, più o meno garbatamente, altri lo ignorarono. Il nostro professore dovette rendersi conto che i radicali di destra sono pressappoco tutti creazionisti, per integralismo cattolico, per fede in quella specie di religione esoterica creata da Julius Evola - più o meno l’unico maitre a penser o guru che la destra italiana abbia prodotto – per confusione fra le idee di evoluzione e di progresso, o semplicemente per pigrizia, anchilosi o calcificazione mentale.
Un ex scienziato, Giuseppe Sermonti, fratello fra l’altro di uno dei mini – leader che pullulano nel radicalismo di destra, Rutilio Sermonti, ed autore di un libello antievoluzionista, La luna nel bosco, ha recentemente prodotto uno scritto, Nietzsche contro Darwin, il cui tema è stato poi riproposto in diverse conferenze.
Friedrich Nietzsche, filosofo del nichilismo aristocratico è forse l’unico pensatore di grande levatura che “la destra” possa in qualche modo attribuirsi, sebbene il suo franco ateismo, il suo rifiuto di ogni trascendete indimostrabile la metta costantemente in imbarazzo. Nietzsche era un antievoluzionista?
Se noi vogliamo partire dal presupposto che gli scritti di un pensatore servono per rendere noto il suo pensiero e non per nasconderlo, proprio non si direbbe; se leggiamo quello che è forse lo scritto più famoso di Nietzsche, Così parlò Zarathustra, uno dei suoi brani più noti, il Discorso di Zarathustra al mercato, troviamo:
“Tutti gli esseri crearono qualche cosa che sorpassa loro stessi: e voi volete essere il riflusso di questa grande marea, e tornare piuttosto al bruto che superare l’uomo? (…)
Voi avete percorso la strada che porta dal verme all’uomo, ma molto c’è ancora in voi del verme. Una volta eravate scimmie, e ancora adesso l’uomo è più scimmia di tutte le scimmie” (3).
Che strano, vero? Sembra proprio di sentir parlare un evoluzionista!
Il fatto è che “destra” e “sinistra” sbagliano alla stessa maniera sul medesimo punto, confondendo il concetto di evoluzione con quello di progresso, anche se poi alla risultante di questo malinteso appiccicano reazioni emotive opposte.
Per capire quanto ciò sia erroneo, basterebbe considerare semplicemente la scala dei tempi: un homo sapiens anatomicamente moderno, non distinguibile da noi, esiste su questo pianeta da qualcosa come 50.000 anni (la stima più alta fissa intorno ai 100.000 anni la comparsa della nostra specie, la più bassa la situa intorno ai 16.000 anni, con la comparsa dell’uomo di Cro Magnon in Europa); quando noi invece parliamo di progresso, parliamo di un mutamento culturale e non biologico iniziato all’interno della cultura europeo – occidentale nel XVIII secolo con la rivoluzione industriale od al massimo nel XVII secolo con la rivoluzione scientifica.
A sua volta, la nozione di progresso è ambigua e contraddittoria, al punto che si potrebbe dire che è uno di quei concetti che non esi9stono in quanto corrispondenti ad un oggetto reale, ma soltanto il ragione di una strumentalizzazione politica.
Si considera assodato che esista una relazione fra progresso scientifico e tecnologico (il solo ambito nel quale l’utilizzo della parola “progresso” appare pienamente legittimo) e sviluppo del rispetto dei diritti umani, delle libertà civili della giustizia sociale e via dicendo, e tutto ciò è messo in relazione con “l’essere a sinistra” al punto che, molto spesso, nella terminologia inconsistente dei dibattiti politici, “di sinistra” e “progressista” vengono spesso usati come sinonimi intercambiabili.
Ora, questo è, per usare la terminologia della giurisprudenza, un vero e proprio abuso della credulità popolare.
Nella storia dell’Occidente moderno, sviluppo scientifico e tecnologico e progresso dei diritti umani e delle libertà civili sono storicamente associati, ma è tutto da dimostrare che fra le due cose esista una connessione intrinseca: le polis greche antiche ed i Comuni italiani del Medio Evo ci mostrano la crescita delle libertà civili in assenza di sviluppo tecnologico, e d’altra parte la storia dei totalitarismi del XX secolo ci mostra chiaramente che allo sviluppo scientifico e tecnologico non sempre corrisponde una progressione delle libertà civili e dei diritti umani, ma che può avvenire esattamente il contrario.
Ma il punto più importante è che, impadronendosi del concetto di progresso in questa maniera, la sinistra (che presume automaticamente ma si esime assolutamente dal dimostrare di essere dalla parte delle classi lavoratrici) ha compiuto una vera e propria, gigantesca appropriazione indebita.
Consideriamo i Paesi del “socialismo realizzato” nei tardi anni ’80, prima che il tipo di regimi che li governava si dissolvesse sotto il suo stesso peso, sotto il peso di un fallimento che ha ben pochi o nessun uguale nella storia.
Con quale incredibile faccia di tolla la sinistra internazionale osava presentare quei regimi elefantiaci come “progressisti”, come “democrazie popolari” (questo era il ridicolo eufemismo allora in uso!)? Si trattava di autocrazie elefantiache dove nessuno godeva di nessun diritto, eccetto l’élite dirigente al potere, e molto arretrate rispetto all’Occidente “capitalista” anche dal punto di vista tecnologico, capaci solo di distribuire ai propri sudditi oppressione e miseria. Dov’era “il progresso” qualunque cosa questa parola voglia significare?
E la destra, cadendo stupidamente nel tranello, mettendo cose diversissime nello stesso sacco (da Darwin a Breznev) non dava forse, non continua a dare ancora oggi la caccia ad un fantasma?
Questa digressione dovrebbe essere servita a chiarire un punto fondamentale: possiamo parlare di evoluzione senza essere per nulla “progressisti”, anzi con la piena consapevolezza dell’ambiguità di questo termine, pretesto di una strumentalizzazione politica, ed allora nulla ci impedirà più di cogliere quale è il vero nucleo essenziale della teoria di Darwin, ossia il ruolo creativo della lotta per la sopravvivenza e della selezione naturale, che non è soltanto il carnefice egli inadatti ma, grazie all’accumulo selettivo di piccole variazioni favorevoli, attraverso i tempi lunghi della storia delle specie, genera i tipi superiori.
Sgomberato il campo dagli equivoci, torniamo alla domanda fondamentale, quella dalla quale siamo partiti: quale affinità c’è fra l’evoluzionismo darwiniano ed il pensiero celtico – druidico?
Per quanto riguarda il neoceltismo moderno, essa è senza dubbio molto forte: noi non avremmo probabilmente nemmeno potuto ricominciare a provare un sentimento di sacralità della natura, se Darwin non ci avesse insegnato a concepirci come parte di essa, ma forse è possibile spingerci un po’ più in là.
Tutte le volte che cerchiamo di ricostruire il pensiero druidico nella sua realtà storica ci imbattiamo nel medesimo problema, la scarsità di fonti documentali, ma Rolando Dubini, il nostro Myrddin cui su questo argomento riconosco volentieri una competenza superiore alla mia, ci ha spesso assicurato sulle pagine di questo sito, dell’analogia fra il pensiero druidico e quello della filosofia greca presocratica (ossia anteriore a Socrate), per cui partirò da questo presupposto, anche se sia chiaro che mi prendo in toto la responsabilità delle conclusioni.
Adottando questo criterio, quel che si scopre non è di poco interesse, perché allora ci si accorge che quella linea di pensiero che attraverso Socrate, Platone ed Aristotele va infine a sboccare nella filosofia cristiana è una sorta di deviazione dal pensiero filosofico più antico, forse spiegabile con il fatto che con Socrate siamo già in un’epoca tarda, di decadenza delle polis, posteriore alla guerra del Peloponneso, e lo scopo della filosofia non era tanto conoscere la verità quanto offrire consolazione; ad esempio, l’abbandono della più moderna e più esatta teoria astronomica eliocentrica già sostenuta dai Pitagorici a favore del ritorno al geocentrismo compiuto da Aristotele, potrebbe essere interpretato come espressione del bisogno di sottolineare la centralità del mondo umano rispetto a quell’orizzonte naturalistico nel quale la più antica filosofia greca si era invece mossa.
Dopo Talete, il filosofo greco più antico, di cui non ci è stato tramandato nessuno scritto, incontriamo il suo discepolo Anassimandro che ci si presenta con un pensiero – purtroppo un frammento – di notevole spessore:
“Da dove le cose hanno origine, là esse ritornano. Morendo, i viventi pagano l’uno all’altro il fio dell’ingiustizia commessa vivendo”.
Analizzando i concetti espressi, vi troviamo una grande complessità: la vita, l’esistenza, prima di tutto è ciclica; inevitabilmente, prima o poi, ogni cosa deve ritornare a quel nulla, a quel non essere originario dalla quale è emersa.
Vivere, in secondo luogo, significa commettere ingiustizia, la vita si nutre di altra vita per poter esistere: gli animali erbivori si nutrono di piante, i carnivori di erbivori. Vivere significa causare e patire dolore. Lo si riconoscerà, siamo molto vicini al concetto darwiniano di lotta per la vita, ed alla visione di una natura che non ha alcuna misericordia per coloro che soccombono. Sarà un’opinione personale, ma a me sembra di cogliervi anche – come dire – un’eco anticipatrice del concetto esistenzialista di Kerkegaard per il quale “esistere” è un “ek-sistere”, un “porsi fuori” dall’indifferenziato grembo del non essere, l’esito di una sorta di ribellione e quindi in un certo qual modo compiere un’ingiustizia.
Vista da una certa distanza la vita è equilibrio, è armonia, ma considerato da vicino “il cerchio della vita” è assai meno idilliaco di quanto non reciti la pellicola – favola del Re Leone. Non possiamo immaginarci una gazzella che, caduta sotto gli artigli di un grosso felino, riesca ad apprezzare l’equilibrio e l’armonia superiori che portano alla sua morte, nel momento in cui questi la sta sbranando.
Io direi che qui sono avvertibili anche le somiglianze con il pensiero indiano e buddista: la vita come violenza ed il desiderio, l’istinto vitale come causa di sofferenza, che a sua volta costituisce un karma che andrà espiato, e ci dà l’impressione di essere molto vicini ad un originario fondo di pensiero indoeuropeo che senz’altro i druidi possono aver condiviso, e questo ci darebbe una conferma delle tesi di Rolando Dubini, ma c’è ancora una cosa che va notata a questo riguardo.
Talete, Anassimandro e tutti gli altri prima di Platone non si definivano, non erano chiamati filosofi, ma sofoi, saggi oppure fisiologoi, studiosi/conoscitori della natura. Il termine filosofo, filo – sofos, amante della conoscenza, è introdotto da Platone, ma facciamo attenzione, ci spiega il grande studioso della cultura greca Giorgio Colli, se questo termine in Platone significa ancora la ricerca di una conoscenza perduta da ritrovare, è con Aristotele che esso assume il significato della ricerca di una conoscenza nuova, mai da nessuno posseduta, che il filosofo inventa grazie alla forza del suo ingegno. E’ a partire da Aristotele, quindi a trapasso concluso dalla civiltà classica all’ellenismo, che il termine “filosofo” assume il significato che gli diamo oggi, di elaborazione mentale personale astratta, talvolta frivola, perché – come faceva osservare Cicerone – tra i filosofi ha maggior reputazione chi inventa un’assurdità nuova che chi ripete una verità detta da altri.
Fino ad allora, i sofoi o fisiologoi erano delle scuole, delle comunità di saggi che si trasmettevano attraverso le generazioni un sapere condiviso, riguardante sia gli insegnamenti etici sia la conoscenza del mondo naturale, in modo sostanzialmente analogo ai druidi ed alle scuole vediche dell’India.
Da questo sottofondo comune, si arriva però presto alla grande biforcazione del pensiero indoeuropeo in orientale ed occidentale: una volta constatata la tragicità dell’esistenza, di cui Anassimandro dimostra una così chiara consapevolezza, possiamo riconoscerla oppure negarla (l’idea che il mondo si regge su di una legge di sofferenza, che la nostra stessa vita, per poter continuare, deve costantemente alimentarsi di altra vita, è un’idea che fa male), possiamo persuaderci che questo mondo, con la sua catena di dolori e morte è soltanto apparenza, ed è questa la via scelta dal pensiero orientale; si pensi, ad esempio alla Baghavad Gita, al dialogo tra Krishna e Arjuna (Il guerriero Arjuna è riluttante a scendere in battaglia pensando alla sofferenza che causerà; il suo auriga Krishna, che è in realtà un’incarnazione del dio Visnù, lo rassicura: il dolore, la morte, coloro che crede di avere davanti come nemici, in realtà non esistono).
Partendo da basi del tutto diverse, il cristianesimo e le religioni semitiche arrivano a conclusioni simili: il male e la sofferenza nel mondo sono in realtà parte di un “bene” superiore, l’imperscrutabile volontà di un Dio che non possiamo giudicare.
Riconosciuta la tragicità dell’esistenza, possiamo cadere nel pessimismo paralizzante di Kierkegaard, oppure accettarla, poiché essa è il prezzo necessario della bellezza e della gioia; è questo lo spirito del nichilismo aristocratico di Nietsche, ed è l’unica filosofia compatibile con il pensiero evoluzionista e con il ruolo creativo che esso assegna alla dura legge della selezione naturale.
Tornando ad Anassimandro, le analogie con il pensiero evoluzionista sono più forti di quel che crederemmo: non solo il senso ella vita riposto nell’ineludibile lotta per la sopravvivenza, ma, di più, l’idea che l’uomo deve discendere da antenati non umani, poiché, essendo il cucciolo dell’uomo totalmente inetto, a differenza di quelli di molte altre specie, come avrebbero fatto altrimenti i primi uomini a sopravvivere durante l’infanzia?
Inoltre, seguendo probabilmente in questo l’insegnamento del suo maestro Talete che sosteneva essere l’acqua l’arché, il principio di tutte le cose, egli riteneva che la vita terrestre avesse avuto antenati acquatici.
Tuttavia il pensatore che ci dà più di ogni altro l’impressione che i venticinque secoli che lo separano da Darwin e da Nietzsche siano stati una lunga e tutto sommato improduttiva digressione, non è Anassimandro, ma Eraclito, il grande Eraclito che fu forse suo discepolo, e del quale Nietzsche disse di “metterne a parte il nome con venerazione”.
Eraclito fu detto dai suoi contemporanei skoteinos, “oscuro”, poiché, esattamente come Darwin e come Nietzsche, parlava un linguaggio talmente chiaro da indurre i più a preferire di non capire.
Eraclito è noto come il filosofo del panta rei, del “tutto scorre”, del “non ci si bagna due volte nello stesso fiume, perché l’acqua nella quale ci eravamo immersi la prima volta è già scorsa a valle”, ma è soprattutto il pensatore che vede il mondo, nella sua essenza, basato sul conflitto, sull’antagonismo, la lotta, l’equilibrio dinamico di tensioni opposte che scrive che “Omero ed Esiodo, che pregano gli dei di dare la pace al mondo, non sono consapevoli di pregare per la morte del mondo”.
Egli fa il paragone dell’arco che, in quanto tale, esiste soltanto perché le opposte tensioni della corda e dell’asta sono in equilibrio; se prevale la tensione della corda e l’asta si spezza, non avremo più l’arco ma una corda con due pezzi di legno alle estremità; se prevale la tensione dell’asta ed è la corda a spezzarsi, avremo invece un bastone con alle estremità due funicelle.
Eraclito non si ferma a questo: il conflitto fra tensione antagoniste, la guerra, la competizione, non solo mantengono l’equilibrio del mondo, ma, e qui pare veramente di leggere Darwin con venticinque secoli di anticipo, hanno un potere creatore, sono il potere creatore, egli scrive:
“La guerra è madre e regina di tutte le cose”.
E’ vero però che subito dopo egli sposta l’attenzione dalla realtà naturale al mondo umano, aggiungendo:
“Di alcuni essa fa degli uomini, di altri degli dei”.
Questo è un punto molto delicato sul quale occorre essere estremamente chiari: l’evoluzionismo correttamente inteso, a differenza di quel che pensavano alcuni esegeti ottocenteschi di Darwin (ma mai lo stesso Darwin) non implica, non raccomanda, non giustifica per nulla la guerra od un atteggiamento brutale nei rapporti umani.
Occorre distinguere con molta chiarezza la competizione che in natura esiste fra le specie e quella all’interno della medesima specie.
La prima, unitamente alla selezione che ne deriva, è effettivamente il meccanismo motore dell’evoluzione: pensiamo ad una specie di predatori e ad una di prede: leopardi e gazzelle o falchi e lepri, o quanti esempi volete, la competizione delle due specie, degli uni per procurarsi il cibo, degli altri per sfuggire alla predazione, produce la selezione di entrambe le specie, perché saranno i predatori più abili a procurarsi il pasto e le prede più agili e veloci a sfuggire alla cattura; dal punto di vista evolutivo, le due specie collaborano al reciproco miglioramento; i biologi la chiamano co- evoluzione.
La competizione fra membri della stessa specie, invece tende a produrre risultati “mostruosi”: è il caso della selezione sessuale che ha prodotto le code esagerate e d’impaccio all’animale per qualsiasi altra attività che non sia il richiamo della femmina, del pavone e del fagiano argo, o della chela ipertrofica del granchio violinista maschio; è il caso, molto di più, non solo della guerra, ma dell’eccesso di competitività a tutti i livelli che si è instaurato nelle società umane.
Konrad Lorenz ha dedicato agli effetti abnormi della selezione intraspecifica, della guerra e dell’eccesso di competitività nella nostra specie, alcune delle pagine più interessanti del libro Gli otto peccati capitali della nostra civiltà:
“Al contrario della selezione causata da fattori ambientali estranei alla specie, la selezione intraspecifica modifica il patrimonio genetico della specie considerata attraverso alterazioni che non solo non favoriscono le prospettive di sopravvivenza della specie, ma, nella maggior parte dei casi, la ostacolano” (4).
Tanto più certamente oggi che le guerre non sono decise in alcun modo dalla superiorità fisica o genetica dei contendenti ma esclusivamente dal loro livello tecnologico, esse non esercitano alcuna funzione selettiva, ma esclusivamente distruzione indifferenziata, ma possiamo incolpare Eraclito di non aver compreso questo in un’epoca in cui le maggiori innovazioni tecnologiche dell’arte bellica erano ancora la spada di ferro e la corazza di bronzo dell’oplita? Farlo equivarrebbe a fargli colpa di essere stato un uomo della sua epoca e non della nostra, tanto più se pensiamo che ancora nel XX secolo, alla vigilia dello sprofondamento dell’Europa nel baratro delle due guerre mondiali un Filippo Tommaso Martinetti proclamava: “Guerra, sola igiene del mondo”.
Piuttosto, dovremmo ammirare la grande intuizione circa il ruolo creativo della lotta per l’esistenza che precorre Darwin di due millenni e mezzo, concepita senza disporre dei metodi d’indagine della scienza moderna, ma probabilmente frutto di una conoscenza empirica, di una protratta familiarità con il mondo naturale che noi, civilizzati ed auto – addomesticati (direbbe Konrad Lorenz) uomini moderni non riusciamo più, perlopiù, ad avere.
Se esiste un’affinità fra pensiero druidico e filosofia greca presocratica, ipotesi che mi sembra esca rafforzata da quest’esposizione, se quest’ultima ha precorso il pensiero evoluzionista di Darwin, se l’evoluzionismo stesso si può considerare il ritorno, non deliberato ma obiettivo, ad un sapere naturalistico precedente, allora non ci sono dubbi: Charles Darwin è uno dei nostri.

Note
1) La citazione è riportata nell’articolo di Massimo Cappon L’evoluzione nella tempesta, “Airone” n. 9, gennaio 1982 (numero speciale per il centenario di Darwin), Giorgio Mondadori, pag. 72.
2) Stephen Jay Gould: Questa idea della vita (Ever since Darwin) Editori Riuniti, Milano 1984, pag. 18.
3) Friedrich Nietzsche: Così parlò Zarathustra (Also sprach Zarathustra), Mursia, Milano 1972, pag. 19.
4) Konrad Lorenz: Gli otto peccati capitali della nostra civiltà (Die acht Todsunden der zivilisierte Menscheit), Adelphi Milano 1977, pag. 43

 

Druidismo e Pitagorismo

 

"Presso di loro la dottrina di Pitagora conosce un successo particolare, dottrina secondo la quale l'anima umana è immortale e che dopo un numero determinato di anni ogni anima ritorna alla vita con un altro corpo..."

Diodoro Siculo, Biblioteca Storica, V, 2, 8.

I Celti erano considerati dai Greci e dai Romani popoli bellicosi ed incostanti, amanti alla follia del vino, sprezzanti della morte e delle più elementari leggi del vivere civile. Per loro fu coniato il termine greco "Barbaros", derivante dal fatto che ai greci la lingua celta suonava come un balbuziente ripetersi del suono "ba", che da allora divenne sinonimo di genti incivili e selvagge.

Nonostante questo i sacerdoti celti, i Druidi, godevano di grandissima fama e i letterati alessandrini non esitavano ad accostarli ai sapienti astrologhi e matematici babilonesi, ai "sahdus" dell'India vedica e ai saggi persiani, tutti ispiratori della filosofia greca.

Di tutti questi sapienti il denominatore comune era senza dubbio Pitagora, grande viaggiatore che visitò paesi lontani come l'Egitto e l'India. A cominciare dal I sec. a.C. gli eruditi greci stabilirono dei paralleli tra il pitagorismo e il druidismo, cercando di stabilire quale dei delle due filosofie fosse la più antica e quale fosse stata ispirata dall'altra.

Dal punto di vista di questi eruditi i punti in comune erano molti e fondamentali; durata e carattere segreto degli insegnamenti, l'abbigliamento bianco, la vita comunitaria, l'interesse per l'astronomia e per i numeri... Ma il legame più evidente era la fede nella dottrina della reincarnazione delle anime, che i greci chiamavano metempsicosi.

Alcuni pensavano che il druidismo avesse fortemente influenzato Pitagora, ma sappiamo oggi che cronologicamente ciò non è possibile poiché nel VI sec. a.C. in gallia i Druidi non erano ancora comparsi, ma esistevano solo Re sacrali, come il principe Hochdorf. Ma non è impossibile il contrario, ovvero che la dottrina pitagorica fosse conosciuta dai Druidi. Infatti se si dovesse dar credito a papa Ippolito (III sec. a.C.) il pitagorismo sarebbe stato trasmesso ai Druidi da Zalmoxis, uno schiavo tracio al servizio di Pitagora.

O forse semplicemente i celti vennero in contatto con la dottrina pitagorica in Magna Grecia, dove combatterono come mercenari a più riprese a partire dal IV sec. a.C., questa ipotesi trova supporto in una serie di monete galliche ritrovate nel nord della Francia e realizzate ad imitazione di quelle in uso nelle città "pitagoriche" italiche, in special modo a Taranto.

In effetti è più probabile che i druidi abbiano crearono una filosofia indipendentemente col solo scopo di convincere che "le anime sono eterne ed esiste un'altra vita presso i morti", arrivando ad elaborare una visione del mondo di cui ci restano che pochi frammenti e contenente una spiegazione sull'origine dell'uomo, nato in modo originale da un dio infero partorito dalla terra, una visione escatologica sulla fine del mondo (Giovenale scrive "è da temersi la caduta del cielo, come indicano i galli") e una morale che Pitagora stesso non avrebbe rinnegato.

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Autore Kal di Bibrax | Pubblicato il 29/05/2002

 

Druido: una parola misteriosa

 

Per quanto possa sembrare una questione futile, schiere di studiosi a cominciare addirittura da Plinio il Vecchio si sono scontrate sul significato del termine "Druido", che distingueva i membri della classe sacerdotale celtica, comparabile nelle sue funzioni a quella dei bramini dell'India.

Ma esaminiamo da vicino questo termine.
Druid, che nelle lingue celtiche continentali potrebbe probabilmente essere declinato al nominativo in druis, da un più antico druwi(d)s, genitivo druidos ed al nominativo plurale in druides, è conosciuto grazie ai numerosi richiami presenti nelle lingue classiche: druìdés (plurale druìdai) in greco (Aristotele e Strabone) e druides (genitivo druidum) in latino (Cesare, dBG) nella flessione atematica della terza declinazione, probabilmente la più vicina al modello grammaticale celtico.

L'antico irlandese conferma questa flessione poiché ha al nominativo singolare druì (da druwis) che diventa nella lingua moderna draoi (pronuncia dri), e al nominativo plurale druid (da druwides) che diventa druidi, ovvero "druido, mago, stregone". Il termine può essere paragonato nella sua composizione a suì, "sapiente, saggio", composto da su-wids che deriva direttamente dal sanscrito sù-vidvams ovvero "colui che conosce bene", oppure a dui, "ignorante", composto da du-wids. Le forme brittonniche derwydd (gallese), "indovino", e dorguid (bretone) hanno invece una diversa composizione (do-are-wid, "colui che vede in avanti") e non devono essere confuse con il termine in esame.

L'etimologia di druid che si deve quindi scomporre in dru-wid, mette in risalto il suffisso wid sul quale tutti gli studiosi sono d'accordo nel vedervi la radice indoeuropea ueid, "sapere", véda in sanscrito, oide in greco, weiss in tedesco, uideo ("io vedo"), fiss nell'antico irlandese da cui fiadu, "sapiente, maestro" e così via.

Quindi il termine druid ha una componente che significa indubbiamente "sapiente, colui che sa", mentre la prima parte dru è oggetto di discussione accademica avente due possibilità:

 

I Druidi e la dottrina dell'immortalita'

 

“A voi solo è dato sapere la verità sugli dei e sulle divinità del cielo...
Vostra dimora sono le macchie più riposte delle foreste più remote.
Voi insegnate che le anime non cadono nelle silenti sedi dell’erebo o nei pallidi regni del sotterraneo Dite, ma che lo spirito passa a reggere altre membra in un altro mondo: la morte, se è vero ciò che insegnate, è il punto intermedio di una lunga esistenza”.
Lucano Pharsalia I, 450-458 passim

Questi pochi versi del poeta latino Lucano (I D.C.) contengono, come è facile cogliere ad una prima lettura, un accenno alla dottrina druidica sulla morte e la sorte dell’anima del defunto; se ci si volge ad un esame capillare di tutte le fonti antiche che si occupano del druidismo o della civiltà celtica più in generale, appare evidente che tale riferimento costituisce un vero e proprio leit-motiv, ancor più singolare se si considera il carattere eminentemente pragmatico della storiografia antica.

Naturalmente poco portato ad approfondire speculativamente le proprie osservazioni, uno storico-militare come Cesare, ad esempio, vede nella dottrina dell’immortalità poco più di una “favoletta” raccontata ad arte per incoraggiare i soldati alla lotta e Valerio Massimo, un secolo più tardi, avrà buon gioco a ridicolizzare nella sua opera l’usanza celtica di concedere e richiedere prestiti in fin di vita con l’intento di restituire o riscuotere post mortem (Fact. et. dict. memor. II, 6, 10).

Se gli storici strictu senso non offrono più che un accenno alla problematica proposta dalla teoria della sopravvivenza dell’anima, nelle opere di filosofi o studiosi di filosofia, il credo druidico trova maggiore spazio, essendo continuamente accostato e confrontato con la filosofia classica. Nell’interpretazione di questi autori, infatti, i druidi sono veri e propri filosofi, le cui speculazioni richiamano dottrine e teorie già note: nel caso della “filosofia” druidica il costante richiamo è a Pitagora e alla sua scuola. Clemente Alessandrino (Stromata I, XV, 70, 1), citando Alessandro, sostiene che Pitagora, di cui la tradizione ricorda i numerosi viaggi, dopo essere stato allievo di un Assiro, ebbe modo di perfezionarsi tra i Galati (sic) e i bramini.

Ippolito, poco più tardi (III d.c.), capovolge la questione (Philos.I, 24): sono i druidi ad avere appreso la teoria pitagorica della trasmigrazione delle anime dal tracio Salmoside, servo di Pitagora stesso.

Nonostante la diretta testimonianza delle due fonti appena citate, è assai difficile per gli studiosi credere ad un effettivo contatto tra dottrina pitagorica e pratica druidica, per un duplice ordine di motivi: in primo luogo il pitagorismo, fenomeno limitato anche in ambito mediterraneo, si configura sin dalla sua nascita come pratica misterico-esoterica per una nicchia di ricchi e colti fruitori: è dunque assai improbabile che possa aver valicato i limiti del proprio bacino d’utenza per diffondersi a più ampio pubblico. Le dottrine druidiche sulla morte, d’altra parte, appaiono comuni a molti popoli primitivi senza che si debba per forza implicare qualche contatto e, inoltre, ad un esame più minuzioso, non solo travalicano il credo pitagorico ma spesso ne costituiscono una palese violazione. La già citata testimonianza di Valerio Massimo sulla possibilità di restituire o incassare debiti nell’altra vita, ad esempio, implica come possibile la fruizione di beni terreni dopo la morte, inconcepibile nel pensiero del filosofo greco.

Quel che, a ben vedere, sembrano testimoniarci i ritrovamenti archeologici, invece, è l’opinione diffusa che il defunto dimori per un certo tempo all’interno del suo sepolcro per poi spostarsi altrove: un esempio è ravvisabile nel ricco corredo funerario proveniente da una tomba principesca di Hochdorf (l’odierna Eberdingen, nella regione tedesca del Baden-Württemberg), che annovera oltre a suppellettili ed utensili di comune utilizzo, un carro equipaggiato per gli eventuali spostamenti del morto. Il fatto che l’anima potesse servirsi di materiale umano o prodotto da mano umana è ulteriore testimonianza del fatto che più che di una possibile trasmigrazione in altro corpo, i druidi ritenessero che essa potesse conservare immutate le proprie sembianze umane, come pure i propri bisogni e necessità.

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Autore Filippo Liuti | Pubblicato il 01/01/2002

 

La realta' Druidica

 

"...Tra i Celti e i Galli vi sono persone chiamate Druidi..."
(Diogene Laerzio)

Che cosa vuole dire la parola "Druido", e quale la sua provenienza?
Nei testi classici la troviamo solo al plurale: druidai in greco e druidue o druides in latino. Nei testi in antico ir­landese, dnuid è il plurale di dnui..

Il druidismo da sempre è stato un sistema vivo e in costante evoluzione e mutamento, che con il trascorrere del tempo integra in sé influssi provenienti da ciò che gli sta intorno. Non è facile distinguere uno per uno i diversi influssi e non possiamo mai essere sicuri di averli identifi­cati con precisione. Se questo è vero per quanto riguarda il druidismo come complesso di pratiche o credenze, ciò vale anche per la stessa parola "druido". Non tutti gli stu­diosi sono concordi circa la sua etimologia, ma la maggior parte degli esperti contemporanei concordano con gli autori classici nel considerare più probabile un'origine della parola dal termine che significa "quercia" unito alla radice indoeuropea wid, "sapere", consentendo loro di tradurre la parola druido come "colui che ha il sapere del­la quercia", "saggio della quercia". Moltissimi sono gli elementi che corroborano questa etimologia, come pos­siamo notare dalla parola "quercia" nelle quattro lingue sotto indicate:

daur (irlandese, "quercia"- drui "druido"); dervo (gallico, "quercia"); derw (gallese, "quercia"-denvydd "druido"); drus (greco, "quercia")

Anche se a prima vista può sembrare strano che le conoscenze dei druidi fossero limitate a un unico albero, è facile capire che, se questa etimologia è giusta, la quercia sarà stata scelta simbolicamente perchè rappresentasse tutti gli alberi, dal momento che essa era uno dei membri più vecchi, imponenti e riveriti della foresta. Colui che possedeva il sapere della quercia possedeva il sapere di tutti gli alberi. Ulteriore sostegno all'idea che la parola "druido" unisca i concetti di conoscenza e di alberi lo possiamo trovare nel fatto che in irlandese gli alberi sono fid e la conoscenza è fis, mentre in gallese gli alberi sono gwidd e gwiddon è "il conoscitore"; da ciò si può avanzare l'ipotesi che il druido fosse una persona dotata della "cono­scenza degli alberi" o fosse un vero e proprio saggio dei boschi.

Dato che comunemente la parola per indicare questi personaggi è "Druido" spesso è frequente l'interrogativo sul se esistessero anche Druidesse

Un errore che si compie comunemente nel rappresentarsi il druidismo consiste nel pensa­re che esso sia patriarcale. È, sì, vero che quando comin­ciò la rinascita, nel XIX secolo, i gruppi di neo - druidi erano dominati dai maschi, un po' come nel caso della massoneria. Tuttavia, pur essendoci ancor oggi gruppi ancora influenzati dal carattere patriarcale del druidismo della rinascita, è importante rendersi conto che questo non appartiene alla autentica pratica druidica. Sia le narrazioni classiche sia le narrazioni celtiche ci mostrano che accanto ai druidi esistevano delle druidesse, e la leg­ge celtica concedeva la parità alle donne, permettendo lo­ro di scegliersi il marito, di divorziare, di possedere ed ereditare proprietà, di combattere e diventare capi militari, come ben sappiamo dalla storia di Boadicea.

Cercare di capire chi erano i druidi porta ad assistere a una battaglia tra due ideologie, due modi di concepire la vita: quello materialista e quello spirituale. L'in­terpretazione della storia dipenderà dall'ideologia o dalla filosofia cui daremo il primo posto, e finché non avremo ben chiaro come il modo di porsi influenzi l'interpretazio­ne del passato lo studio dei druidi sarà estrema­mente confuso.

La maggior parte dei libri sui druidi hanno messo insie­me materiale storico fattuale e materiale esoterico o speculativo in un modo che sovente è poco chiaro e tale da giustificare l'accusa rivolta ai loro autori dalle autorità ac­cademiche di mescolare fantasia e fatti. Un numero minore di libri si sono limitati al materiale fattuale disponibile e si sono presentati come studi storici oggettivi sui druidi. Ma commetteremmo un grosso errore se pensassimo che questi testi "oggettivi" presentino le cose in modo reale, dal momento che la presa di posizione ideologica dell'autore che a essi soggiace influenza intimamente il modo in cui egli presenterà e interpreterà i suoi dati. Per quel che riguarda il druidismo i dati sono particolarmen­te frammentari. Sono sufficienti per formarci un'immagine di chi fossero e di che cosa facessero e in che cosa credessero, ma si tratta di un quadro cosi scarno che siamo costretti a basarci in gran parte su deduzioni, e in questo processo di interpretazione dei dati saremo guidati dal nostro modo di porci filosoficamente nei confronti della vita: la nostra concezione di chi sia realmente l'uomo e perché egli sia al mondo.

 

Chi erano i druidi?

 

Da dove venivano i druidi? Alcuni dicono da Occidente, altri da Oriente. Alcuni vogliono che essi ab­biano avuto origine in Atlantide, a Occidente, altri ipotizzano che i druidi quali noi li cono­sciamo dai testi classici siano il prodotto della fusione di una cultura neolitica locale con i Celti sopraggiunti da Oriente.

La storia esoterica delle radici del druidismo è bella e affascinante. I maghi di Atlantide avevano svelato i miste­ri della natura ed agivano in armonia con la sua potenza. Ma vi furono alcuni che usarono questa stessa potenza per i propri fini, allo scopo di dominare e manipolare gli altri. "La Guerra di Atlantide fu la guerra della magia bianca contro quella nera, tra coloro che vedevano nella Natura la grande Madre Divina degli uomini e usavano i suoi doni per il benessere del genere umano, e quelli che vedevano nella Natura la Tentatrice Satanica, che faceva offerte di oscuro dominio e crude­le potenza" (Eleanor Merry). Quando la catastrofe si abbatté su Atlantide, i signori oscuri si inabissarono mentre cercavano di tenersi stretti al loro potere temporale. I saggi bianchi, invece, dotati di conoscenze superiori e di una più profonda fede nella supremazia della ricchezza spirituale su quella ma­teriale, si misero in viaggio sia verso Oriente sia verso Occidente. A Ovest, essi sbarcarono sulle coste americane, a Est sulle spiagge irlandesi e sulle coste occidentali della Gran Bretagna.

Se accettiamo questa teoria sulle origini dei primi druidi, saremo in grado di renderci conto più agevolmente del motivo per cui esistono così tante impressionanti somiglianze tra le dottrine e le pratiche degli Indiani d'America e quelle dei druidi.

Nelle fonti letterarie antiche non esistono testimonian­ze che accennino alla provenienza da Atlantide dei druidi. Tuttavia, nella tradizione celtica trovano posto inondazio­ni catastrofiche, e nel Libro Nero di Camarthe, per esempio, una fanciulla di nome Mererid porta allo scoperto "la fontana di Venere" dopo essere stata stuprata da Seithen­nin. Dopodiché l'acqua della fonte ricoprì la Terra.

In Gran Bretagna si narra la storia di Ys inghiottita dal­le acque. La malvagia figlia del re praticava la magia nera, e impossessatasi della chiave che il padre teneva al collo e che apriva la diga che proteggeva Ys dal mare, riuscì a far sprofondare il regno e se stessa allo stesso tempo.

Ambedue questi racconti, come pure alcune antiche storie del Graal, parlano degli stessi fatti accaduti ad Atlantide: una violenza fatta alla natura il cui esito è lo scaturire delle acque che inondano le terre. Lo stupro della vergine Mererid, per esempio, può essere visto come un'immagine mitica della violenza fatta alla natura dai maghi di Atlantide dediti alla magia nera. Il fatto che la violenza scateni al­lagamenti incontrollabili ben si adatta dal punto di vista simbolico, perché ciò che sfrutta le terre è la consapevolezza analitica maschile non addomesticata dall'unione con il femminile, ed è la potenza vendicatrice del femminile, simboleggiata dalle acque, che è costretta a sommergere l'insensibile maschile. Ed è strano osservare come oggi la storia sembri sul punto di ripetersi, con le acque prodotte dallo scioglimento delle calotte polari che innalzano il livello dei mari in risposta alla nostra violenza sulla biosfera.

Nel Lebor Gabala Érenn (Libro della conquista dell' lrlan­da) si parla del diluvio biblico, ma Caitlín Matthews ha avanzato l'ipotesi che per questa e per altre storie "sia forse a qualche vaga reminiscenza di Atlantide e della fan­ciulla a guardia della fonte che si ispirarono alcune delle storie nel loro aspetto primitivo" Quel che è certo è che la tradizione celtica parla di sei razze che sono giunte in Irlanda dall' "al di là della nona onda" (l'estremo confine delle terre al di là del quale si stendono i mari neutrali) La Compagnia di Cessair, la Compagnia di Partholon, il Popo­lo di Nemed, i Fir Bolg, i Tuatha de Danaan e i Milesii. Il Libro della conquista dell'lrlanda fa una cronaca delle in­vasioni di queste sei razze, cercando di integrare memorie dei bardi e tradizione biblica, facendo di Cessair la nipote di Noè. Ma sono i Tuatha de Danaan, i Figli di Danu o Dana, la razza divina che ha preso dimora nelle vuote colline del sidhe al sopraggiungere dei Milesii, quelli che alcuni esoteristi identificano negli stessi Atlantidi.

Coloro che sostengono l'origine del druidismo da Atlan­tide avanzano l'ipotesi che, mentre alcuni degli emigrati dalle Terre Lucentie si sarebbero stabiliti in Irlanda e Gran Bretagna, altri avrebbero proseguito alla volta del­l'Asia e dell'India, alcuni attraverso un percorso più set­tentrionale, altri attraverso un percorso più meridionale. In seguito, i discendenti di questi emigrati sarebbero rifluiti da est a ovest, ed è, secondo loro, questa seconda migrazione quella che venne scelta da alcuni storici essoterici per concentrarvi la loro attenzione riguardo alle origini del druidismo.

Lasciando da parte la teoria delle origini da Atlantide, la cui accettazione è a discrezione di ciascuno, possiamo ora rivolgerci alle teorie più convenzionali sull'origine dei druidi, che sono basate più su fonti di informazione storiche essoteriche che non su fonti esoteriche o chiaroveg­genti. Dell'esistenza dei druidi siamo a conoscenza me­diante le opere degli autori classici. La prima menzione dei druidi si ebbe in due opere distinte risalenti rispettiva­mente al 200 a.C. e al 400 a.C. circa, che sfortunatamente sono andate perdute. Nel III secolo d.C., Diogene Laerzio, nella prefazione delle sue Vite dei Filosofi, menziona il fat­to che i druidi erano stati descritti in un libro del greco Sozione di Alessandria e in un trattato sulla magia attri­buito ad Aristotele. Gli storici ritengono plausibile l'esistenza del libro di Sozione, scritto nel II secolo a.C., men­tre considerano apocrifa l'opera di Aristotele del IV secolo a.C. Se si ammette una concezione mitica o poetica delle origini dei druidi, non stona né il non poter essere sicuri se la più antica registrazione di questa tradizione sia realmente esistita né il fatto che la seconda attestazione in or­dine di tempo esista sì, ma non in una biblioteca bensì nell'intangibile mondo in cui viene registrato solo il ricor­do della sua esistenza, più di cinquecento anni dopo che essa era stata messa per iscritto. In questo modo, la no­stra conoscenza del druidismo emerge dal regno dell'i­gnoto facendosi strada un po' alla volta più che manife­starsi all'improvviso in noi in un flusso di consapevolezza.

 

Prime attestazioni

 

La più antica attestazione dei druidi che non sia andata perduta ci è fornita da Giulio Cesare nel sesto libro del De bello gallico, scritto intorno al 52 a.C. Successivamen­te troviamo che parlano dei druidi numerosi autori clas­sici tra cui, Cicerone, Strabone, Diodoro Siculo, Lucano, Plinio e Tacito , fino al 385 d.C., quando Ausonio scrisse per i professori di Bordeaux una raccolta di odi, tra le quali vi è la storia di un vecchio di nome Febicio, della stirpe bretone dei druidi, che riuscì a ottenere una cattedra a Bordeaux grazie all'intervento di suo fi­glio. L'opera degli autori classici getta un po' di luce anche se in modo incompleto su ciò che facevano e in cui credevano i druidi.

Ma le maggiori fonti di informazione scritte che si possiedono sui druidi vengono dall'Irlanda, dal Galles e dalla Scozia, anche se esse sono cronologicamente molto più tarde delle fon­ti classiche, e quindi presentano già di per sé problemi particolari al momento di interpretarle. I testi irlandesi partono dall' VIII secolo d.C., quelli gallesi vennero nel complesso messi per iscritto solo in epoca medievale, e i materiali scozzesi rimasero allo stadio di tradizioni orali fin verso la fine del XIX secolo, quando gli studiosi di tra­dizioni popolari cominciarono a registrare per iscritto i tesori che essi contenevano.

I testi irlandesi sono considerati "un frammento straordi­nariamente arcaico di letteratura europea", che rispec­chiano "un mondo più antico di quello di qualunque altra letteratura popolare dell'Europa occidentale". Essi com­prendono perlopiù racconti di eroi e compendi di codici di leggi, e ancorché trascritti da ecclesiastici cristiani, si può osservare come essi riproducano un quadro affidabi­le di quel mondo druidico precristiano d'Irlanda che esisteva prima dell'introduzione del cristianesimo nel V secolo d.C..

I testi gallesi, come quelli irlandesi, sono la versione scritta di materiali originariamente tramandati per via orale. Messo per iscritto molto più tardi dei componimen­ti irlandesi, il Corpas di testi gallesi comprende il Libro Bianco di Rhydderc1z (Gwvn Rhydderc), la cui stesura risale al XIV secolo circa e il Libro Rosso di Hergest (Llyfr Coch Hergest) del XV secolo circa. È dal Libro Rosso che sono tratte le ben note fiabe del Mabinogion, e una parte delle fiabe di questa raccolta si trovano anche nel Libro Bianco: il che prova che esse vennero messe per iscritto per la prima volta tra il 1100 e il 1250. Un altro importan­te manoscritto gallese, che racchiude molte delle nostre conoscenze attuali sulla sapienza druidica, è il Libro di Taliesin (Hanes Taliesin). Esso risale a un'epoca ancora più recente, essendo la copia, redatta nel XVII secolo, di un manoscritto del XVI. Un'ulteriore fonte di conoscenze sui druidi e sulla loro opera ci può venire dalle Trindi Cal­lesi, che sono il risultato dell'unione di molte fonti mano­scritte. Esse ci permettono di vedere da vicino qual era il complesso percorso dell'addestramento dei bardi, e dalla loro forma nitida possiamo intravedere la profondità del pensiero bardico e druidico.

Il materiale scozzese, si potrebbe pensare, non dovreb­be avere una grande affidabilità come fonte di informa­zione sui druidi, dal momento che è stato messo per iscritto solo nel XIX e nel XX secolo. Tuttavia, questo ma­teriale, che comprende la cospicua raccolta fatta da Alexander Carmichael e pubblicata in sei volumi tra il 1900 e il 1961 con il titolo Carmina Gadelica, non fa che convalidare la visione del nostro retaggio precristiano quale era stata ricavata dalle fonti precedenti, classiche, irlandesi e gallesi. Esso rappresenta anche la testimonian­za vivente della capacità straordinaria che le tradizioni culturali e spirituali hanno di sopravvivere per migliaia di anni venendo semplicemente trasmesse da bocca a orec­chio. È vero che tutte queste fonti di informazione di cui disponiamo sono state influenzate, con il passar del tem­po, dal cristianesimo e da influssi continentali, quando i bardi gallesi e cornovagliesi fuggirono in Bretagna al mo­mento delle invasioni sassoni, ritornando con canzoni e storie modificate. Ma nonostante questi influssi, la forma e la sostanza originarie precristiane di questi materiali è chiaramente individuabile, e si può affermare che il cor­pus di materiale di cui si dispone per comprendere il drui­dismo è veramente enorme. A tutt'oggi i tesori che esso racchiude non sono ancora stati pienamente indagati e valorizzati.

   

Dati archeologici

 

Le nostre conoscenze riguardo ai druidi possono essere incrementate, ancorché non di molto, attraverso lo studio di iscrizioni, incisioni e sculture. Il materiale epigrafico disponibile consiste in circa 360 iscrizioni ogamiche, ritrovate principalmente su pietre tombali nel Sudovest dell'Irlanda e in Galles, che risalgono al V e VI secolo d.C., e in circa 374 iscrizioni, ritrovate soprat­tutto in Gallia, con dediche a dei o dee, anche se esse ri­salgono quasi esclusivamente all'epoca in cui la Gran Bre­tagna e la Gallia appartenevano all'Impero romano. Il materiale iconografico è costituito da sculture e incisioni, sia in legno sia in pietra, raffiguranti persone e animali e risalenti al VI secolo a.C. Questi due tipi di testimonianze, quella epigrafica e quella iconografica, diventano illumi­nanti se poste nel contesto che ci è fornito dai dati testua­li corroborati dalle scoperte nel campo dell'archeologia,

degli studi linguistici e della mitologia comparata. Pas­sando a considerare queste testimonianze, ci addentria­mo in un campo di studio ricco ed entusiasmante, che nell'ultimo ventennio ci ha consentito di formarci un qua­dro del druidismo che fa pensare a una continuità di tra­dizione che dall'era neolitica si è protratta per tutto il pe­riodo celtico.

Comunità agricole neolitiche risalenti al 4500 a.C. sono state individuate nel Sud della Gran Bretagna e in Irlan­da, e a nord, fino alle Orcadi, al 3500 a.C. Furono queste comunità "dell'età della pietra" che costruirono i monu­menti megalitici ed eressero i loro numerosi monumenti di pietra nel corso di circa duemilacinquecento anni, tra il 3500 e il 1000 a.C.

Quanti tra noi si erano fatti l'idea che questi nostri an­tenati neolitici fossero dei "rozzi selvaggi" sono stati co­stretti a rivedere radicalmente il loro modo di pensare alla luce delle scoperte, di cui fu pioniere, Sir Norman Lockyer agli albori del XX secolo, ma che hanno avuto un pieno sviluppo solo negli ultimi vent'anni grazie alla mi­nuziosa opera di analisi computerizzata dei professori Thom, Hawkins e Atkinson. Quest'opera ha dimostrato che i circoli di pietre e altri monumenti della popolazione neolitica furono eretti servendosi di conoscenze matema­tiche sorprendentemente sofisticate, il che dimostra che i nostri antenati illuminati possedevano una conoscenza "pitagorica" della matematica più di mille anni prima della nascita di Pitagora.

Resti megalitici sotto forma di tumuli sepolcrali, pietre erette e circoli di pietre sono stati ritrovati in ogni parte del mondo: in Tibet, Cina, Corea e Giappone, nelle isole del Pacifico, Malesia e Borneo, in Madagascar, India, Pakistan ed Etiopia, nel Medio e nel Vicino Oriente, in Africa e nelle Americhe.

Quello che è certo, comunque, è che i monumenti megalitici dell'Europa occidentale sono tra i più antichi del mondo. La datazione con il carbonio 14 situa la maggior parte di essi tra il V e il II millennio a.C. E dal momento che essi sono più antichi dei monumenti trovati in Africa o in Asia, nel Vicino o nel Medio Oriente, non possono es­sersi "propagati" a partire dal Sud o dall'Est.

 

Chi erano i Celti?

 

Le origini dei Celti sono altrettanto difficili da determina­re e provocano tante discordie accademiche quanto le ori­gini dei druidi. La conclu­sione di molti storici è che termine "Celti" non sia il nome proprio di una popo­lazione ... ma sia stato attribuito dai geografi classici a una grande varietà di tribù barbare, anche se non si nega che sia esistito un gruppo linguistico che a partire dal XIX secolo è stato chiamato "celtico", né che sia possibile effettuare significative osservazioni archeo­logiche riguardo alla cultura materiale e al modo di vita nei singoli momenti e luoghi. Ma que­ste percezioni diverse e legittime non andrebbero confuse mescolandole tutte in uno stesso insieme etichettato co­me "celtico".

Consapevoli di queste premesse, probabilmente gli antenati dei Celti erano i popoli della cultura dei Vasi Campaniformi (Beaker-folk), originari dell'Europa centrale o dell'Iberia nel III millennio a.C., e quelli della cultura delle Asce da Combattimento che quasi certamente mi­grarono dalle steppe della Russia meridionale più o meno nello stesso periodo. La fusione di queste popolazioni nelI'Europa centrale intorno al II millennio a.C. diede origi­ne alle culture successive note come culture di Unjetice, dei Tumuli e dei Campi di Urne. Alcuni studiosi sostengo­no che sul finire del II millennio a.C. la cultura dei Campi di Urne può essere considerata "protoceltica". A partire dal 700 a.C. circa, la cultura di alcuni dei discendenti dei popoli dei Campi di Urne è stata denominata cultura di Hallstatt, che può essere considerata con una certa sicurezza celtica in opposizione a quella protoceltica. La cul­tura di Hallstatt può essere seguita solo per 200 anni, dopodiché essa lasciò il posto alla cultura di "La Tène" che si protrasse fino all'arrivo dei Romani.

Ma se consideriamo antenati dei Celti anche i popoli delle culture dei Vasi Campaniformi e delle Asce da Com­battimento, e li chiamiamo, come fanno alcuni studiosi, "proto-Celti", allora possiamo far risalire l'arrivo dei proto-Celti in Gran Bretagna già intorno al 2000 a.C., dal mo­mento che fin da tale epoca sono stati identificati siti di cultura dei Vasi Campaniformi nelle Isole Britanniche.

Il professor Renfrew si schiera contro questa teoria, so­stenendo che, anche se essa viene preferita dagli archeo­logi del continente, la maggior parte degli archeologi (britannici) oggi non pensa in termini di immigrazione, in qualsivoglia misura, di portatori di vasi campaniformi. Al contrario Renfrew, in un'opera recente che descrive gli studi di linguistica storica, preferisce una teoria sulle ori­gini indoeuropee che era già in voga nel XIX secolo ma che ora egli ripresenta con le opportune modifiche e mes­se a punto. Le sue argomentazioni sono complesse e raffi­nate, e andrebbero studiate sull'originale. Ma sono convincenti. Egli non si rifà a un modello migrazionista, pur avanzando l'ipotesi che, grosso modo prima del 6000 a.C., nella parte orientale dell'Anatolia si trovassero popolazio­ni parlanti lingue progenitrici di tutte le lingue indoeuro­pee, e che intorno al 4000 a.C. i più antichi parlanti lingue indoeuropee avrebbero raggiunto l'Europa e forse anche la Gran Bretagna.

I Celti vengono considerati discendenti da questi In­doeuropei. A partire dal 6000 a.C. essi si erano diffusi dalla loro sede originaria sia in direzione est sia in direzione ovest, raggiungendo a Occidente la Gran Bretagna e l'Ir­landa, e a Oriente l'India. Gli studi di mitologia comparata hanno evidenziato che la letteratura sanscrita ci tramanda antichi riti indiani assai simili a quelli che si ritrovano nell'Irlanda celtica, e che si possono istituire impressionanti paralleli tra alcune divinità indù e gli dei celtici.

Gli storici erano soliti sostenere che i Celti erano giunti nelle Isole Britanniche a ondate successive a partire dal 500 a.C. circa, e che quindi i druidi, essendo Celti, non po­tevano avere costruito i circoli di pietre. Gli appassionati di antichità della rinascita druidica del XVIII secolo e i moderni Ordini druidici che sostenevano che i druidi pra­ticavano il loro culto in località come Stonehenge veniva­no scherniti dagli accademici convinti che invece gli ulti­mi circoli di pietre costruiti fossero anteriori di oltre cinquecento anni all'arrivo dei Celti. Tuttavia, i dati che sono oggi in nostro possesso mostrano che i druidi della rinascita e quelli moderni avevano ragione riguardo ai lo­ro predecessori, sia che si pensi alla comparsa in Gran Bretagna dei proto-Celti intorno al 2000 a.C., con la cultu­ra dei Vasi Campaniformi, sia che si pensi a un loro arrivo in epoche ancora anteriori, con gli Indocuropci, come ipotizza Colin Renfrew.

Ma approfondire l'argomento oltre l'analisi storica delle origini del drui­dismo è impresa che va al di là di ogni limite, poichè ogni aspetto della sua storia più antica dà adito a controversie.

 

Quanto tempo occorreva per diventare Druido

 

Non possiamo essere certi del tempo esatto occorrente, ma Cesare accenna al fatto che occorrevano vent'anni per diventare Druidi, ma poteva anche trat­tarsi di una cifra convenzionale, per indicare semplice­mente un lungo periodo di tempo, e che in realtà doveva­no occorrere diciannove anni, dal momento che i druidi quasi sicuramente facevano riferimento al Ciclo di Me­ton, un sistema di computo del tempo basato sul ciclo lu­nare di diciannove anni. Sembra comunque che, qualun­que fosse la lunghezza complessiva dell'addestramento, essa dovesse comprendere anche il periodo impiegato per raggiungere i gradi anteriori di bardo e ovate.

Se il bardo era il poeta, il conservatore della tradizione e l'intrattenitore, mentre l'ovate era il medico, il detective, l'indovino e il veggente, che cos'era il druido? Per riassumere le sue fun­zioni, si può dire che fungeva da consigliere di re e gover­nanti, da giudice, da maestro e da autorità in fatto di cul­to e cerimonie. Il quadro che ne risulta è quello di una saggezza matura, di una posizione ufficiale privilegiata, e di un ruolo che comporta prendere decisioni, dirigere e impartire conoscenza. Tendiamo a pensare al druido co­me a una specie di sacerdote, ma questo non è provato dal materiale disponibile. I testi classici non li descrivono mai come sacerdoti, bensì come filosofi. A prima vista questo sembra originare qualche confusione, dal momen­to che sappiamo che essi presiedevano cerimonie, ma se ci rendiamo conto che il druidismo era una religione na­turale, terrestre o solare, in contrapposizione a una reli­gione rivelata, come il cristianesimo o l'islamismo, possiamo concludere che essi non fungevano da mediatori tra Dio e l'uomo, bensì da registi dei rituali, da sciamani che guida­no e controllano i riti.

 

I Druidi in quanto giudici

 

"I druidi sono considerati i più giusti tra gli uomini e per­tanto a loro viene affidato il compito di giudicare le contro­versie private e pubbliche. Un tempo dovevano anche funge­re da giudici arbitrali in caso di guerra e avevano la facoltà di fermare i combattenti nell'attimo in cui costoro si accinge­vano ad allinearsi per la battaglia, ma, soprattutto, si de­mandava loro il giudizio nei processi per omicidio". - Strabone, Geographia -

"Sono chiamati a decidere in quasi tutte le controversie pubbliche e private e se viene commesso qualche delitto, se awiene qualche uccisione, se sorge una lite per un'ere­dità o per la delimitazione di terreni, sono i druidi a deci­dere e a stabilire i risarcimenti e le pene. E se qualcuno, sia che si tratti di un cittadino privato o di un intero popolo, non si attiene al loro giudizio, lo bandiscono dalle funzioni del culto, il che è la pena più grave, presso i Galli".

- Cesare, De belto gallico -

È sempre stato tramandato all'interno dell'Ordine che i druidi non fossero responsabili dei sacrifici umani men­zionati dagli autori classici. Se prendiamo in considera­zione i racconti sui famosi uomini di vimini (gigantesche sagome di legno in forma umana al cui interno criminali e altri sarebbero stati dati alle fiamme) vedremo che uno studio accurato di quanto ci dicono gli autori classici per­metterà di stabilire se siano o meno affermazioni basate su fatti reali.

Nel brano di Cesare sopra citato, egli osserva che la pe­na più severa comminata dai druidi era l'ostracismo. In una società altamente strutturata, la posizione, l'immagi­ne, la condizione e la reputazione erano di vitale impor­tanza per l'individuo. In molte società perdere la faccia era, e ancor oggi è, la punizione più temibile. La ferita inferta dal­l' ostracismo era una ferita dell'anima, non del corpo. Pe­netrava nel cuore stesso di quello che ciascuno riteneva di essere al mondo. Cesare non afferma che la punizione più grave per i druidi fosse l'essere sacrificati o bruciati vivi, asserisce invece che la loro punizione più severa consiste­va nell'escludere la persona trovata colpevole dalla parte­cipazione ai sacrifici (in altre parole, le cerimonie religio­se, che probabilmente comportavano sacrifici di animali). Quando si era banditi dalla partecipazione all'attività spirituale e sociale centrale per la tribù, la punizione era vera­mente severa, si era dei reietti, e probabilmente si diventava anche capri espiatori, per non parlare dell'intima tortura del proprio io, della vergogna e della derisione della tribù. Un simile ostracismo era una punizione spa­ventosa, inconcepibile per il modo di pensare individuali­sta di oggigiorno.

Lo spiega Cesare: "Quelli che sono a questo modo banditi sono considerati empi e scellerati; tutti si allontanano da loro, evitano di incontrarli e di par­lare con essi, per non essere contaminati dal loro contat­to".

L'Irlanda non venne mai conquistata dai Romani ma anche in questo paese troviamo ulteriore materiale a sostegno dell'idea che la punizione più severa dei druidi fosse l'ostracismo, se studiamo le antiche leggi d' Irlanda, che risalgono direttamente alla legge druidica. La puni­zione più pesante era il bando: per esempio, coloro che avevano commesso incesto od omicidio venivano gettati in mare in una rudimentale imbarcazione di vimini con null'altro che un coltello per potere badare a se stessi. Se ne uscivano vivi, avevano salva la vita: avevano affrontato il giudizio degli elementi e il tormento di essere dei reietti e avevano rischiato la morte, in tal modo si consideravano sufficientemente purificati. Certo, essi dovevano conosce­re molto bene le maree, perché nessuno doveva augurarsi di vedere un assassino rigettato sulla spiaggia nel giro di un'ora e con un coltello in mano. I cinici direbbero che si trattava di un semplice scaricabarile, con ogni comunità che sospingeva i propri criminali verso quella più vicina in direzione della corrente. Chi conosce il mare e i suoi pericoli saprà che molti dovevano senz'altro perire se messi in acqua in determinati luoghi e in determinati momenti.

Se la punizione più severa comminata dai druidi era il bando o l'esilio, sia in senso letterale, con il colpevole gettato in mare, sia in senso sociale e psicologico come nel caso di chi era bandito dagli atti di culto, perché troviamo i druidi associati a sacrifici umani? Torniamo a leggere Cesare e il suo De bello gallico:

"I Galli sono molto dediti alle pratiche religiose, perciò quelli che sono gravemente ammalati o si trovano in guer­ra o in pericolo, fanno sacrifici umani o fanno voto di im­molarne e si servono dei druidi come ministri di questi sa­crifici ... certe popolazioni costruiscono statue enormi, fatte di vimini intrecciati, che riempiono di uomini vivi e incendiano, facendoli morire tra le fiamme."

In entrambi i casi sono i Galli, e non i druidi che immo­lano o fanno voto di immolare. Nella frase in cui si parla delle statue di vimini non si parla affatto dei druidi. Nella frase precedente si sostiene che i Galli impiegavano i druidi come ministri di questi sacrifici. Fino all'abolizio­ne della pena di morte, in Gran Bretagna si sono impiega­ti sacerdoti cristiani come ministri quando i condannati venivano impiccati. Ed ancor oggi vediamo le forze arma­te impiegare ministri del culto cristiani quando si ingag­gia una battaglia e a migliaia i soldati vengono sacrificati al Dio della Guerra. I druidi erano i saggi della società barbarica dei Celti, e la religione dei Celti era an­che la loro religione, con tutti i suoi lati crudeli.

 

I Druidi in quanto maestri

 

«Presso di loro si raccoglie per istruirsi un gran numero di giovani ed essi sono tenuti in grande onore... Attirati da cosi grandi privilegi (l'esenzione dal servizio militare e dal­la tassazione di guerra) molti giovani di loro volontà si re­cano da loro per esserne discepoli e molti sono mandati dai genitori e dai parenti. Da loro, a quanto pare, debbono imparare a memoria un gran numero di versi; per molti il tempo del noviziato dura vent'anni. Non ritengono lecito scrivere i loro sacri precetti; invece per gli altri affari, sia pubblici sia privati, usano l'alfabeto greco."

Cesare, De bello gallico

A giudicare tanto dalle fonti classiche che da quelle irlan­desi, appare chiaro che una delle principali funzioni del druido era quella di maestro. Ciò comprendeva l'insegna­mento sia a un livello esoterico sia a un livello essoterico. Per aiutarci a farci un'immagine di come doveva vivere e operare un druido, Caitlín Matthews propone l'immagine del rabbino ebreo. Egli, o essa, era «un uomo o una don­na sapiente il cui consiglio era ricercato per tutte le que­stioni della vita di ogni giorno, qualcuno che magari eser­citava un'arte, che era sposato e aveva una famiglia, che radunava la gente per le celebrazioni comunitarie e la cui parola era legge. Proprio come i rabbini hassidici che pra­ticavano la Kabbalah ed erano conosciuti come veggenti e operatori di miracoli, anche i druidi erano persone dalle capacità eccezionali. Dai vari resoconti celtici troviamo che un druido aveva di solito uno o più studenti addetti al suo seguito o alla sua casa. Allo stesso modo, per tornare al nostro parallelo ebraico, un rabbino gestiva spesso una scuola talmudica per un numero di allievi che poteva es­sere sia di poche unità sia piuttosto elevato. Analogamen­te gli allievi druidi imparavano dai loro maestri».

Mentre alcuni druidi potevano avere anche solo due o tre discepoli che vivevano con loro, in cambio, presumi­bilmente, di un aiuto nella gestione della casa, altri riuni­vano intorno a sé un numero di allievi sufficiente per co­stituire un vero e proprio collegio druidico. Nell'Ulster, per esempio, si tramanda che Cathbad, un druido del re Conchobar, era circondato da un centinaio di discepoli.

Che cosa dovevano imparare? Proprio come, in epoche successive, gli ordini monastici divennero centri di cultu­ra, si facevano carico di tutta la gamma dell'istruzione, dall'insegnamento della cultura generale a quello della filosofia, dall'insegna­mento del diritto a quello della magia, dall'insegnamento delle arti di guaritore all'insegnamento dell'ordine esatto delle cerimonie. Sappiamo anche che i druidi fungevano da tutori dei figli dei re e dei nobili, e che gli allievi veniva­no mandati da un maestro druido a un altro per apprende­re le diverse arti. Uno degli argomenti a sostegno dell'ipo­tesi che il druidismo abbia avuto origine in Gran Bretagna con la fusione della tradizione celtica e del clero preesi­stente della cultura megalitica sta nel fatto che gli allievi venivano mandati dalla Gallia in Gran Bretagna per essere addestrati nel druidismo. Essi venivano inviati all'autenti­ca sorgente della cultura druidica, per immergersi in tale fonte. Cesare fornisce un sostegno a questo modo di vedere quando afferma: "È opinione comune che l'organizzazio­ne dei druidi sia originaria della Britannia e di li sia passa­ta in Gallia e ora chi vuole approfondirne lo studio, si reca perlopiù in tale isola, allo scopo di apprendere".

È allettante pensare che il sistema educativo anglosas­sone, come pure il sistema inquirente e giudiziario, ab­biano le loro radici nel druidismo. Un giorno probabil­mente vedremo la statua di un druido eretta fuori dalla sede di Scotland Yard o dal tribunale sullo Strand, op­pure un murale nell'anticamera del ministero della Pub­blica istruzione con la raffigurazione di un druido che sta insegnando all'interno di un Bosco sacro.

 

I Druidi in quanto re e consiglieri dei Re.

 

È provato che alcuni re furono anche druidi. Il druido Ai­lill Aulomon fu re del Munster nel I secolo d.C., e si tra­manda che tre re druidi regnavano sull' "isola di Thule". Thule era il nome con cui spesso ci si riferiva all'Islanda, e abbiamo così la suggestiva possibilità che l'Islanda fosse un tempo un regno retto da druidi, molto prima della conquista vichinga. La storia ufficiale dell'Islanda afferma che i primi coloni normanni, quando vi posero piede nell'874 d.C., vi trovarono e portarono via con sé alcuni isolati eremiti irlandesi, che vi erano arrivati passando per le isole FaerOer. Ma una recente indagine sui gruppi sanguigni islandesi mostra che essi hanno una maggior somiglianza con quelli dell'Irlanda che con quelli della Scandinavia. Questo ci porta a concordare con quegli sto­rici che sostengono che l'Islanda fosse di fatto già stata colonizzata dai Celti assai prima che arrivassero i Vichin­ghi. Questa rivendicazione si rafforza quando osserviamo che l'unica fonte di informazione manoscritta in nostro possesso riguardo alla cosmologia pagana nordica, l' Ed­da, fu scritta in Islanda e non in Scandinavia. Il mano­scritto presenta notevoli somiglianze con gli antichi ma­noscritti irlandesi dello stesso periodo, ed è forte la tentazione di immaginarsi i Vichinghi d'Islanda assistiti nel registrare la loro cosmologia da druidi irlandesi o da loro discendenti..

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Myrddin | Pubblicato il 15/07/2004

 

La Storia e i Druidi

 

Vi è una interessante e profonda differenza tra la religione celtica e quella dei germani, degli scandinavi, dei greco latini e con le religioni preesistenti l'arrivo del druidismo in Europa, di cui purtroppo abbiamo scarse informazioni.

Questa differenza consiste nel fatto che nonostante non si possa parlare dei celti come di un solo popolo omogeneo, unito ed organizzato, la loro religione era di gran lunga la più strutturata e gerarchizzata del mondo occidentale di allora, coincidendo in molti punti con quella dei bramini dell'India.

Stiamo ovviamente parlando del druidismo e dei suoi sacerdoti, i Druidi, il cui nome non deriva come alcuni studiosi in passato avrebbero supposto dal termine dorowid (drwid), che significa "Quercia", ma proviene dalla radice foneticamente assai simile dervo (drv), che invece significa "sapiente", già più in linea con ciò che questi sacerdoti e filosofi erano veramente. Ciò nonostante l'interpretazione del reale significato di questo termine è ancora molto discussa, anche se infine è molto probabile che esso contenga entrambe i significati di "Sapiente", dal suffisso wid sul quale sono in accordo tutti gli studiosi, e "Quercia" dal prefisso dru. Quindi il significato reale sarebbe "Conoscitore della Quercia" o anche "Conoscitore dell'Albero", dove per Albero si può anche intendere l'albero cosmogonico, comune anche ad altre culture europee.

Resta comunque abbastanza limitante pensare ai Druidi semplicemente come ai sacerdoti dei celti, essendo le loro funzioni ben più estese di quelle di un prete moderno o di un prete come lo si poteva intendere presso gli egiziani o i latini, senza dimenticare che in alcun testo a loro contemporaneo che trattasse dei Druidi e del Druidismo è specificato che il loro esclusivo compito fosse quello dell'amministrazione della religione. Per ironia del caso, se presso il grande pubblico la figura del Druido assume quasi esclusivamente l'aspetto di mago e sacerdote, accademicamente accade proprio il contrario e non è raro vederli considerare solo come dei filosofi.

Alla luce della documentazione storica e delle recenti ricerche archeologiche dobbiamo invece considerare i Druidi come i componenti di una casta che rifletteva esattamente la concezione celtica del cosmo. In una società in cui non esisteva distinzione tra sacro e profano, poiché nulla era profano, ecco che i sacerdoti di questa religione erano anche i depositari della cultura, delle tradizioni e delle conoscenze tutte, oltre che, ed ecco l'originalità del druidismo, uomini profondamente attivi nella società, spesso come guerrieri e principi. Come dimenticare d'altronde Diviziaco che abbigliato come un guerriero e con la caratteristica mantellina bianca dei Druidi, ritto di fronte al senato Romano ed appoggiandosi al suo scudo, perorava la causa degli Edui e degli altri popoli celtici contro l'invasione dei popoli germanici.

E' interessante notare come anche Cesare li indichi nei suoi scritti sempre con il termine Druides e solo in un paio di occasioni con il corrispettivo latino di sacerdote, sacerdos, evidentemente troppo limitante anche ai suoi occhi.

Ed è ancora interessante notare che la massima importanza del ruolo di questi personaggi all'interno della società celtica sia rilevabile anche tramite i colori ad essi attribuiti. Infatti nella letteratura di questi popoli ad ogni casta è attribuito un colore diverso: blu, verde e giallo per la classe produttrice, alla base dell'economia celtica, rosso per la classe guerriera, ma utilizzato anche per indicare la "conoscenza" (in Irlanda il Dagda, dio supremo, è detto Ruadh Rohfessa "il Rosso della Scienza Perfetta") ed infine il bianco che viene esclusivamente riservato ai Druidi e che in tutte le lingue celtiche (dalla radice vindo-s diviene find in irlandese, gwin in gallese, gwen in bretone) significa anche "bello, sacro". A questo proposito è da segnalare l'errore che il neo-druidismo commise nell'attribuire il blu ai bardes, i vati, e il verde ai vates, gli indovini, tant'è che in tutte le lingue celtiche non esiste differenza tra i termini "blu" e "verde" che vengono puntualmente riassunti nel termine glas, che significa appunto, blu, verde e grigio.

La comparazione e l'incrocio delle fonti storiche e mitologiche ci permette oggi di distinguere le diverse specializzazioni esistenti nella casta sacerdotale celtica:

·         Filidh: Si occupava delle profezie, e dei riti divinatori in genere.

·         Atheberth: Si occupa dei sacrifici e della divinazione ad essi connessa.

·         Liaigh: E' un guaritore, specializzato nell'applicazione delle tre medicine: magica, chirurgica e vegetale.

·         Brithem: Si occupa della trasmissione e dell'applicazione della legge.

·         Scelaige: Il "Contatore", esperto in matematica e nella valutazione del numero delle armate nemiche, dell'estensione della terra, nella conta degli alberi, dei frutti, nella stima dei capi di bestiame e delle messi... leggende raccontano che questi druidi fossero in grado di dare una stima abbastanza precisa con un solo colpo d'occhio.

·         Gutuater: L'Esortatore, l'Invocatore, che guidava i riti invocando la presenza e l'ascolto dell'Annwyn.

Alla luce quindi dell'esatta collocazione di questi personaggi nell'ambito della società celtica si può affermare con una certa sicurezza che i Druidi ed il druidismo non potevano che esistere all'interno di questi ambiti, ovvero all'interno di una cultura indipendente basata fondamentalmente sull'aspetto sacrale della realtà, con una lingua specifica ed originale ed infine non subordinata o convertita ad altre religioni. E' quindi evidente che tutti gli attuali sforzi portati avanti da sedicenti movimenti che vantano un qualche collegamento diretto con questa antica casta devono considerarsi assolutamente privi di fondamento, benché sia fortemente probabile che sparuti elementi dell'antico sapere iniziatico dei Druidi, o forse anche a loro precedente, si siano conservati e tramandati fino ai nostri giorni, adattandosi in parte ai tempi, rivestendosi di nuovi aspetti o più spesso nascondendosi tra i rari e discreti perpetuatori di quelle antiche tradizioni.

Saggi, sciamani e guerrieri forse ancora esistenti in qualche luogo dell'Europa nord-atlantica e qualcuno dei quali potrebbe essere anche molto più vicino a noi di quanto non si pensi.Autore Kal di Bibrax | Pubblicato il 01/01/2002

 

Le Triadi Bardiche

 

1. Tre sono le cose che il viandante non può controllare: il Tempo, lo Spazio e la Verità.

2. Tre sono le cose che mantengono l'ordine e sistema per ciascuna cosa nel mondo : Numero, Peso e Misura.

3. Tre sono le cose che dovrebbero venire considerate prima di tutte: Natura, Forma e Lavoro.

4. Tre sono le cose che distruggono ovunque viaggiano: Acqua, Fuoco e la maledizione degli Dei.

5. Tre sono le cose senza eguali nel mondo: Bellezza, Amore e Necessità.

6. Tre sono le cose che un viandante non può cancellare: Grande Amore, Grande Odio e Grande Abbondanza 7. Tre sono le cose con si fermano mai in un viandante: il cuore nel lavorare, il respiro nel muovere, e l'animo nel proporre 8. Tre sono le cose difficili da vincere per un Viandante: il suo genio, il suo credo e la sua nazione.

9. Tre sono le cose su cui ciascun viandante dovrebbe riflettere: da dove viene, dove si trova, e dove andrà 10. Tre sono le cose difficili da realizzare completamente per un viandante: conoscere se stesso, vincere il suo appetito, e mantenere il suo segreto.

11. Tre sono le cose di cui "tutto" non è bene: fare tutto ciò che la passione desidera, credere a tutto ciò che si dice sulla terra, e mostrare tutto ciò che si conosce.

12. Tre sono i martiri senza uccisione: la generosità di un viandante bisognoso, la castità di un giovane viandante, e un alto tenore di vita senza ricchezza.

13. Tre sono le cose la cui perdita genera sventura: il raggiungimento della conoscenza, una coscienza pura, a l'amore degli Dei.

14. Tre sono le cose che abbagliano il mondo: disonestà, supremazia, e l'eccessivo amore per uomini e donne.

15. Tre sono i consigli dell'uccello giallo:non addolorarsi troppo di ciò che è accaduto, non credere in ciò che non può essere e non desiderare ciò che non puoi ottenere.

16. Tre sono le cose che arrivano al Viandante senza che se ne renda conto: sonno, peccato e vecchiaia.

17. Tre sono le cose essenziali per compiere ogni atto: conoscenza, abilità e desiderio.

18. Tre sono le fonti della conoscenza: ragione, fenomeno e necessità.

19. tre sono gli insegnanti di un Viandante: la prima gli eventi, che derivano da ciò che si vede e si sente, la seconda l'intelligenza, che viene dalla riflessione e dalla meditazione; e la terza il genio, individuale, dal dono degli Dei.

20. Tre sono le istruzioni a cui non è saggio credere: ciò che un Viandante insegna a favore di ciò che è per il proprio profitto e successo; ciò che insegna con odio ad una altro; e ciò che un Viandante saggio ai suoi stessi occhi insegna 21. Tre sono le cose senza le quali nulla può essere: il potere del grande Spirito, il Dio e la Dea, l'amore degli Dei, e la saggezza degli Dei.

22. Tre sono le cose che nessuno oltre agli Dei può sapere: l'inizio di tutto, la causa di tutto, e la fine di tutto.

23. Tre sono le cose che nessuno oltre agli Dei può fare: creare ciò che non è mai esistito prima, sapere ciò che avverrà, e giudicare oltre coscienza.

24. Tre sono le cose che è meglio lasciare agli Dei: giudicare, premiare e retribuire; poiché non c'è nessuno oltre a Loro che sa cosa delle tre è dovuta ad un altro.

25. Tre sono le cose che fanno rimanere vicini agli Dei: la comprensione intuitiva, un lungo e sofferto amore, la conoscenza contemplativa.

26. Tre sono i doni degli Dei: immaginazione, intelligenza, e carità.

27. Tre sono le cose che avvicinano il Viandante agli Dei: pazienza, amore e coscienza.

28. Tre sono le cose che spingono a pregare gli Dei: una lunga malattia, una lunga avversità, ed un lungo dolore.

29. Tre sono le cose che gli Dei non perdonano ad un Viandante: diffamare gli Dei, non credere agli Dei, e disperare degli Dei.

30. Tre sono le punizioni: la punizione della legge della terra, la punizione della coscienza, e la punizione degli Dei.

31. Tre sono le cose che muovono insieme alla stessa velocità l'una con l'altra: illuminazione, pensiero, e l'aiuto degli Dei.

32. Tre sono le cose a cui non si può mai dare una giusta ricompensa: i genitori, i buoni maestri e gli Dei.

33. Tre sono le cose che teniamo in troppa considerazione e che portano via il nostro orgoglio: il nostro denaro, il nostro tempo e la nostra Coscienza.

34. Tre sono le cose che si assomigliano: una spada luminosa arrugginita dal troppo tempo tenuta dentro il suo fodero, l'acqua limpida che puzza per il troppo tempo, e la saggezza morta per il lungo disuso.

35. Tre sono quelli fanno piacere agli Dei: coloro che amano ogni essere vivente con tutto il cuore, coloro che amano ogni cosa bella con tutta la loro forza, coloro che ricercano la conoscenza con tutta la loro comprensione.

36. Tre sono le cose di cui ogni cosa è capace, e senza le quali nulla può essere: la forza del corpo e della mente, la conoscenza, e l'amore per la saggezza intuitiva.

37. Tre sono le cose che non possono essere opposte: la natura, la necessità e la decadenza.

38. Tre sono le genti difficili da credere: un vagabondo che viene da lontano, un lettore di libri in lingua straniera, e colui che è più vecchio dei suoi vicini 39. Tre sono i tipi di persone a cui non è saggio credere: lo straniero riguardo i suoi beni, un Viandante anziano che predica del tempo antico, e un viandante che millanta la sua saggezza.

40. Tre sono le armonie che tengono insieme tutte le cose: L'armonia dell'amore e giustizia, l'armonia della verità e l'immaginazione, e l'armonia degli Dei e la necessità.

41. Tre sono i consigli di Gwydion: conoscere il potere, conoscere la propria saggezza e conoscere il proprio tempo.

42. Tre sono i vanti di uno stolto: ricchezza, discendenza, e dissolutezza.

43. Tre sono le scuole del Viandante saggio: coscienza, ragione e istruzione.

44. Tre sono le cose essenziali per il saggio da conoscere: gli Dei, se stessi, e l'inganno del mondo.

45. Tre sono le cose che il saggio ottiene: prosperità, dignità e gioia.

46. Tre sono i trionfi del saggio: dignità, intuizione e l'elogio.

47. Tre sono le cose di cui un saggio si può elogiare: la propria comprensione, il proprio lavoro artigianale, e la propria virtù.

48. Tre sono le piaghe di un saggio: il sesso, il bere, ed un cattivo temperamento.

50. Tre sono le cose che capitano a chi non è saggio: fallimento, disgrazia e dolore.

51. Tre sono le iniziazioni alla saggezza: l'insegnamento legittimo, comportamenti effettivi, amore istintivo.

52. Tre sono le operazioni sagge: addomesticare la selvatichezza, diffondere la pace e migliorare le leggi.

53. Tre sono le virtù speciali della saggezza: generosità, industriosità, e prudenza.

54. Tre sono le cose che ostruiscono la saggezza: orgoglio, avidità e timore.

55. Tre i sinonimi di saggezza: necessità, modestia, e utilità 56. Tre sono le dimostrazioni di saggezza: credere alla ragione, credere all'immaginazione, credere al miglioramento.

57. Tre sono le conseguenze della saggezza: immaginazione, risolutezza, e lo sforzo.

58. Tre sono le qualità che mostrano saggezza: soffrire in maniera discreta, perdonare le ingiurie, e ricercare la conoscenza.

60. Tre sono le certezze della saggezza: memoria, riflessione e comportamento.

61. Tre sono i segni della saggezza: semplicità, sforzo e lunga sofferenza.

62. Tre sono le armonie della saggezza: generosità e abbondanza, conoscenza e umiltà, e valore e clemenza; e non è nè un Viandante nè un saggio quello in cui tali cose non vivono in armonia.

63. Tre sono i fondamenti della saggezza: discrezione nell'apprendere, memoria nel trattenere, ed eloquenza nel raccontare.

64. Tre sono le cose che rafforzano la mente e la ragione: vedere molto, riflettere molto, e resistere molto.

65. Tre sono le cose che abbelliscono la mente: l'avversione nei confronti della pazzia, una virtù provetta, e il desiderio di apprendere.

66. Tre sono le risorse di un Viandante: intelligenza, amore e preghiera.

67. Tre sono le cose che un viandante che desidera imparare deve fare: ascoltare attentamente, contemplare con attenzione e stare in silenzio continuamente.