considerazioni
Vorrei
premettere che le considerazioni che seguono sono il frutto di una
riflessione esclusivamente personale, e lasciare chiunque altro
libero di correggere/contestare/commentare, con la consapevolezza
che ci muoviamo in un campo estremamente arduo: si tratta di
richiamare in vita non solo una tradizione interrotta da due
millenni, ma una tradizione che ha sfortunatamente lasciato dietro
di se ben poche tracce documentali, un’impresa alla quale è
impossibile accostarsi senza umiltà.
Vorrei cominciare con una considerazione di tipo etimologico: gli
autori classici facevano derivare la parola “druido” dal greco
druos, “quercia” (non “albero” come viene talvolta tradotto,
che in greco è dendron). Onestamente, un simile etimo mi sembra
inverosimile, perché, per prima cosa, sappiamo che gli autori
latini classici erano assai disinvolti nel proporre le etimologie più
inverosimili, senza alcun rigore filologico (d’altra parte la
filologia nasce appena nel XV secolo); secondariamente, è ben vero
che querce ed alberi in genere erano sacri per gli antichi druidi,
ma non più di qualsiasi altra manifestazione, animale o vegetale
della vita, semmai è di una sacralità della natura che si dovrebbe
parlare; terzo, mi sembra improbabile che gli antichi Celti usassero
per designare una figura così importante nella loro cultura e nella
loro società, una figura, se mi si passa l’espressione, così
celtica, una parola straniera.
Onestamente, mi sembra più verosimile l’altro etimo che viene
talvolta proposto, quello che fa risalire “druido” a dru
“molto” – wid “vedere”. Il druido è “colui che vede
molto”: per essere un druido occorre in primo luogo essere un uomo
saggio con un’ampia esperienza della vita ed una profonda
conoscenza della natura (ed è la ragione per cui il druido appare a
volte con i tratti del mago), ed è in base a ciò che i druidi sono
chiamati a scegliere e consacrare i capi tribù ed a dirimere le
questioni frequenti fra una tribù e l’altra (la società celtica
ci può apparire per alcuni versi un po’ anarchica, essendo stati
i Celti sempre gelosi della loro libertà ed insofferenti di poteri
burocratici e distanti, calati dall’alto); sappiamo infatti che
per diventare druidi occorreva un lungo apprendistato, dopo aver
superato una rigida selezione.
Questo non significa che il druido non fosse una figura sacrale, ma
l’analogia con il prete cattolico o cristiano (che rappresenta un
po’ il modello in base al quale, da due millenni in qua ci siamo
abituati a leggere la figura dell’ “uomo sacro”), è con tutta
probabilità fuorviante. Noi non dovremmo dimenticare che la
separazione fra sfera civile e sfera sacrale è una distinzione
introdotta dal cristianesimo, che per l’uomo dell’antichità la
comunità cui appartiene è sacra, tenuta insieme da legami che sono
allo stesso tempo civili, umani e religiosi. Se questo non fosse
sufficientemente chiaro, ci si può rifare una volta di più alle
parole del filosofo Massimo Cacciari che mi è già capitato di
citare in un mio recente articolo, nelle quali il pensatore –
sindaco di Venezia fa un quadro sorprendentemente onesto di quel che
il cristianesimo ha tolto all’umanità in genere ed alla cultura
europea in particolare:
“Ethos non indicava comportamenti soggettivi; indicava la
"dimora", l'abitare in cui ogni uomo si trova alla
nascita, la radice a cui ogni uomo appartiene. In questo senso, un
greco non era più o meno "etico" per sua scelta o volontà.
Egli apparteneva a un ethos. A una stirpe, a un linguaggio, a una
polis. Che non era stato lui a scegliere (…).
Ogni società tradizionale ha, o meglio è, un ethos. Ogni società
tradizionale, come un albero rovesciato, ha la sua radice nella
legge divina, nel nomos. La legge della polis, dice Erodoto, è
l'immagine di Dike [la dea della Giustizia]. Un ethos impone
all'uomo valori che non è lui a scegliere, a decidere, ma a cui
appartiene”.
Un druido era un “uomo sacro” in modo non diverso da ogni
“pater familias” nel momento in cui questi celebrava i riti
familiari in onore degli antenati, salvo il fatto che questa
sacralità non era una funzione accessoria, e che era chiamato ad
essere “padre” non di una famiglia ma di una comunità.
Questo, tuttavia, era bastevole a fare di lui un uomo non meno ma più
sacro di un prete cristiano. La differenza, nella sostanza è
questa: un prete è tale in virtù di un’ordinazione, un
“deposito” che ha ricevuto che non ha nulla a che fare con le
sue qualità intrinseche: un prete può essere l’ultimo dei
cretini, essere ladro o pedofilo, rimane sempre tale.
Vorrei illustrare un fatto che consente di cogliere bene questa
differenza. Ricordo che il mio insegnante di religione durante la
scuola media spiegava a noi pargoli che nonostante le persecuzioni
degli imperatori pagani (molto più blande e sporadiche di quelle,
queste ultime si davvero spietate, messe in atto dai cristiani una
volta preso il potere, ma questo, ovviamente, si guardavano bene dal
dircelo) “mai nessuno” aveva rinnegato la fede di Cristo per
tornare agli antichi dei. Povero cocco! In realtà il problema dei
“lapsi”, dei rinnegati fu un problema enorme con il quale la
Chiesa dovette confrontarsi da Costantino in poi: si ha
l’impressione che appena scattava una “persecuzione”, la
maggior parte dei cristiani si affrettasse a bruciare il proprio
granello d’incenso davanti alla statua dell’imperatore, per poi
tornare ad inginocchiarsi ai piedi della croce appena la
“persecuzione” passava, preti compresi, tranne un ristretto
gruppo di fanatici che andava a cercarsi il martirio.
Nel IV secolo, dopo che la Chiesa aveva preso il potere grazie alla
conversione di Costantino, un gruppo di cristiani intransigenti, i
Donatisti, rifiutava la validità dei sacramenti impartiti da un
prete “lapso”. Peggio che mai, i Donatisti solidarizzavano con i
circellioni, i braccianti agricoli che erano vessati dai grandi
proprietari terrieri e versavano in condizioni di vita miserande:
insomma, come se non bastasse la faccenda dei preti lapsi, avevano
preso sul serio le parole evangeliche a favore degli umili e dei
diseredati, invece di considerarle il semplice tema propagandistico
che in effetti erano: costoro erano dunque degli eretici assai
pericolosi di cui la Chiesa doveva sbarazzarsi al più presto,
soprattutto in un momento in cui cercava di radicarsi fra
l’aristocrazia senatoria e la burocrazia imperiale: Fortunatamente
(?) in difesa dell’ortodossia si schierò prontamente il migliore
intellettuale di cui la Chiesa disponesse a quel tempo, Agostino di
Tagaste, poi sant’ Agostino.
Quest’ultimo, invero, è a sua volta un personaggio piuttosto
interessante. Educato nel cristianesimo, lo abbandonò rendendosi
conto della contraddizione della concezione cristiana (in realtà
della contraddizione di ogni monoteismo): come può un mondo pieno
di male, di sofferenza, d’ingiustizia, essere la creazione di un
Dio onnipotente ed infinitamente buono? Agostino aderì al
manicheismo, dottrina che fondeva il cristianesimo con l’antica
religione zoroastriana, e vedeva il mondo come un campo di battaglia
fra una divinità del bene e una divinità del male dotate di poteri
equivalenti, poi tornò a farsi cristiano: i manichei potevano avere
una posizione più solida sul piano intellettuale, ma era chiaro che
la Chiesa stava vincendo la sua battaglia in forza della sua
superiorità organizzativa e del potere che si era conquistata, ed
è sempre bene trovarsi sul carro del vincitore.
Retrospettivamente, possiamo dire che la Chiesa fece una scelta
molto saggia: se avesse allontanato dalle sue fila i preti
“lapsi” o spergiuri, ladri, lussuriosi, pedofili o comunque
indegni, si sarebbe trovata molto presto a corto di personale.
Noi comprendiamo facilmente che dal nostro punto di vista la
questione non si pone nemmeno: un druido “lapso” o moralmente
meno che irreprensibile, smetterebbe con ciò stesso di essere un
druido.
Abbiamo visto che un druido non era esattamente un “sacerdote”,
se con questa parola abbiamo in mente soprattutto il prete
cristiano, ed il suo ruolo non coincideva neppure con quello del
mago interpretato in senso restrittivo (cioè colui che svolge
“operazioni” con le forze spirituali, ma in senso puramente
tecnico): se dobbiamo avvicinarlo ad una figura della cultura
classica, quella che più gli si attaglia non è quella del
filosofo, ma quella del “savio”, del “sapiente”.
Con ogni probabilità, è possibile aggiungere da questo punto di
vista, proprio la “supervisione” esercitata dai druidi sulla
vita delle tribù celtiche, rappresenta storicamente ciò che più
si avvicina nelle realtà concreta all’ideale del “governo dei
sapienti” espresso da Platone nella “Repubblica”.
Come è noto, l’antico mondo greco considerava la sapienza per
l’appunto in termini sacrali, non semplice saggezza, ma un
appellativo che la tradizione ellenica riconobbe solo a sette
personaggi, e fra questi uno solo di coloro che gli storici moderni
annoverano fra i filosofi, ossia Talete. Il maggiore dei “sette
savi” fu con ogni probabilità Solone, legislatore ateniese e
nonno del filosofo Platone. Delle dottrine dei “sette savi”
nulla è stato tramandato in forma scritta, tuttavia il celebre
episodio dell’incontro di Solone con Creso ci dà un’idea
piuttosto precisa almeno dell’etica del sapiente/legislatore.
Creso, il re di Lidia il cui nome era destinato a diventare sinonimo
di ricchezza ed al quale si attribuisce l’invenzione della moneta,
dopo aver mostrato a Solone le proprie ricchezze, gli chiese se era
convinto che egli fosse felice, ed il saggio ateniese rispose
negativamente, e Creso gli chiese allora di indicargli qualcuno più
felice di lui. Solone fece il nome di un cittadino ateniese
qualsiasi, dalla vita modesta e virtuosa, stimato dai vicini,
benvoluto da amici e parenti e che, avendo ben educato i suoi figli,
costoro erano cresciuti rispettosi ed obbedienti.
Non ci è stato tramandato in quale modo Creso congedò Solone, ma
anni dopo egli mosse guerra a Ciro, il re dei Persiani, una guerra
breve e disastrosa nella quale i Lidi furono rapidamente sconfitti.
Catturato dai Persiani, Creso stava per essere messo a morte, e si
mise ad invocare il nome di Solone, avendo finalmente compreso la
saggezza del suo insegnamento. Colpito da quest’invocazione, Ciro
volle conoscerne il significato, e Creso gli raccontò
dell’incontro che aveva avuto con il sapiente greco. Il gran re
dei Persiani perdonò Creso e gli restituì il dominio della Lidia
anche se non più come sovrano indipendente, ma come suo
governatore, pago di poter godere della sua amicizia e del riflesso,
potremmo dire, della saggezza di Solone.
Il significato dell’episodio è molto chiaro: noi dobbiamo cercare
di vivere secondo virtù prima di tutto in vista della nostra
felicità, del nostro vivere bene su questa Terra; con ogni
probabilità un druido sarebbe stato pienamente d’accordo su ciò,
ma cosa significa virtù?
La cosa interessante è che nella cultura europea nell’antichità
e in tutta l’Età di Mezzo, il “cristiano” medio Evo, si è
conservato un concetto di virtù che è in antitesi con il
cristianesimo: ne troviamo ancora traccia nei “bestiari”, negli
“erbari”, nei “lapidari” medievali, dove si parla delle
“virtù” degli animali, delle erbe, dei minerali, “virtù”
significa “qualità”, “proprietà”, per così dire
esplicitazione della propria natura; lo stesso concetto lo troviamo
nello stoicismo di solito considerato a torto una filosofia
dell’esaltazione della sofferenza, il concetto di oikeiosis,
“accrescimento”: l’uomo virtuoso è colui che persegue ciò
che serve ad accrescere, a perfezionare, a rendere sempre più
esplicita la propria natura: il sapiente deve cercare di crescere in
saggezza, il guerriero di essere un combattente sempre migliore,
l’artigiano sempre più abile nella propria arte, e tutti quanti
abbiamo il dovere di avere cura di sviluppare ciò che
specificamente ci rende umani.
Questo concetto, si noti, è un concetto non cristiano di virtù: la
virtù cristiana esige l’andare contro la propria natura che si
suppone corrotta dal peccato originale, calpestare le proprie
inclinazioni ed i propri istinti, la rinuncia alla felicità nella
vita in cambio della speranza di una felicità ultraterrena. Chi ha
portato la morale cristiana alle estreme conseguenze, è stato
probabilmente Immanuel Kant con il suo concetto dell’imperativo
categorico: se io sono buono e generoso verso i miei simili per
tendenza naturale, ciò non ha alcun valore, perché non lo faccio
che per appagare la mia inclinazione; ne consegue che,
cristianamente parlando, posso essere buono soltanto se possiedo
un’indole malvagia; sarà per questo che due millenni all’ombra
della Croce hanno alimentato ogni sorta di sadismo: fustigatori dei
costumi, misogini malati di avversione verso la sessualità e verso
la metà femminile del genere umano, inquisitori, cacciatori di
eretici e di streghe, crociati e conquistadores in cerca di
conversioni a fil di spada.
Il druido è assimilabile alla figura del “sapiente”, a
condizione però di avere presente la distanza fra questa e quella
del filosofo. Quelli che i manuali di storia della filosofia
etichettano come i primi filosofi, ossia coloro che appartennero al
periodo precedente la sofistica e Socrate, definivano se stessi
fisiologoi, ossia “indagatori della natura”, l’equivalente,
potremmo dire, della figura moderna dello scienziato; fra costoro,
al solo Talete la tradizione ha attribuito in più il titolo di
“sapiente”, eppure fra costoro non mancano spunti di riflessione
etica che possiamo definire saggezza. Personalmente, ho sempre
trovato di grande interesse, ad esempio, questa riflessione di
Democrito:
“Preferisco vivere libero e povero, piuttosto che essere uno
schiavo ricoperto d’oro sotto una tirannide”.
Se vivi sotto una tirannide, non puoi nemmeno dire di essere ricco e
sei solo “uno schiavo ricoperto d’oro”, poiché il tiranno può
in qualsiasi momento toglierti a suo arbitrio ciò che ritieni tuo.
Che quella dei sofisti fosse solo un’arte del bel parlare, una
saggezza apparente, è stato riconosciuto fin dall’antichità. Il
primo ad usare il termine “filosofo” ossia “amante della
sapienza” in riferimento a se stesso, è stato Platone, ma
attenzione, fa notare Giorgio Colli (forse uno dei più profondi
conoscitori dell’antica cultura greca), Platone usa questo termine
nel senso di una sapienza andata perduta da recuperare; l’idea di
una “sapienza” interamente nuova da inventare nasce con
Aristotele che è il primo filosofo nel senso moderno del termine, e
con lui siamo già all’epoca di Alessandro Magno, alla nascita
dell’ellenismo, alla sparizione della cultura ellenica in un
“moderno” e sradicato cosmopolitismo, in un’accozzaglia di
culture dalle quali doveva nascere il cristianesimo come negazione
del radicamento dell’uomo in un ethos ed in un nomos (secondo la
penetrante analisi di Cacciari).
A questo scardinamento delle tradizioni e dei valori del mondo
antico, i filosofi, come abbiamo imparato ad intenderli da
Aristotele in poi, hanno dato il loro bravo contributo. Faceva
notare Cicerone che, poiché fra costoro una stravaganza originale
è più pregiata del ripetere una verità detta da altri, sembra che
facciano a gara a chi riesce a proporre le idee più assurde; non è
certamente questo il modello a cui dobbiamo guardare per ritrovare
qualcosa dell’antico sapiente o druido.
La risposta alla domanda sulla misura nella quale è possibile
recuperare qualcosa dell’antica saggezza druidica, dipende dalla
risposta ad altre due domande: in quale misura il “sapiente” può
tornare a sostituire il filosofo, ed in quale misura è possibile
oggi la ripresa di una religiosità pagana; le due questioni sono
però strettamente collegate.
Vorrei qui ribadire un concetto sul quale mi sono già soffermato,
ma che a mio parere è della massima importanza: la vittoria del
monoteismo cristiano sulle religioni antiche non dipese in alcun
modo dalla sua presunta “superiorità teologica”. L’idea che
il mondo che abbiamo davanti, con il suo contenuto illimitato di
disarmonia, male e sofferenza, sia il prodotto della creazione di un
unico Dio onnipotente ed immensamente buono, non solo è
contraddittoria, ma costringe l’uomo ad un umiliante
autoflagellamento, a vedersi infame e miserabile oltre ogni limite
per trovare in se stesso l’origine di quel male che non può/non
vuole attribuire a “Dio”. Se ci sforziamo di uscire dai cavilli
e dalle mistificazioni di teologi e catechisti, è difficile al
riguardo non condividere l’affermazione dello scrittore Stefano
Benni, che “Dio ci fa più bella figura se non esiste”. Del
resto, a questo riguardo, vale il parere degli stessi teologi
cattolici che parlano di misterium iniquitatis; ossia, in un
contesto monoteistico, l’origine del male è un mistero, un rebus
senza soluzione: attribuirla a Satana, ad un “avversario” che,
in quanto creatura, trae anch’esso origine da Dio, sposta il
problema ma non lo risolve.
Due millenni di monoteismi “storici” (se prescindiamo dal più
antico di essi, che non ha mai coinvolto più del 2 - 3 per mille
dell’umanità ed è rimasto rigorosamente una religione etnica)
sono stati due millenni di fallimenti che se non hanno dato una
spiegazione al problema del male, ne hanno pesantemente aggravato il
fardello sulle spalle dell’umanità, e l’ultimo dei “quattro
impostori” monoteisti (Mosè, Cristo, Maometto e Marx), quello la
cui dottrina doveva realizzarsi sul piano storico, avendo come Dio
la Storia, come messia il proletariato, come paradiso il Socialismo,
è quello che ha scontato nel più breve tempo il fallimento
peggiore e seminato i maggiori lutti insanguinando un intero secolo,
ma non è che cristianesimo ed islam se la passino tanto meglio: il
cristianesimo è oggi in una fase tangibile di decadenza e senilità;
al confronto, l’islam (che ha sette secoli di meno) appare
giovanile e battagliero, carico di energie ed in una fase espansiva,
ma non ci vuole molto ad accorgersi che questo suo dinamismo non è
altro che la virulenza di una malattia epidemica: i sintomi sono gli
stessi del cristianesimo dei “secoli bui", l’intolleranza,
l’odio per la libertà e l’uso della ragione, il disprezzo per
la vita che si esprime nell’avversione per la sessualità e nella
condizione d’inferiorità imposta alla donna; il problema è
quanto potrà durare la sua fase aggressiva e quanti danni potrà
fare, ma di sicuro è destinato a perdere il suo confronto con
l’Europa.
La crisi dei monoteismi sta forse cedendo il passo ad una rinascita
del paganesimo su scala planetaria; a questo proposito, ecco cosa
affermava Christopher Gerard, direttore della rivista “Antaios”
(fondata da Ernst Junger e Mircea Eliade – e scusate se la
creazione d’intellettuali di questo calibro è poco -; e non si
dovrebbe mancate di sottolineare che “Antaios” è membro del
Centro Mondiale delle Religioni Etniche, il che è come dire la voce
più autorevole del paganesimo europeo) in una memorabile conferenza
tenuta il 15 maggio 1997:
“Oso affermare che il Paganesimo sta per diventare di nuovo la
prima religione del mondo. Infatti, se si considerano gli Induisti,
gli Scintoisti, i Taoisti, gli animisti e gli adepti - sempre più
numerosi - dei culti precristiani d'Europa o delle Americhe (si
pensi alla spettacolare rifioritura dello sciamanesimo nell'ex
URSS), dei culti preislamici (Zoroastriani delle regioni turcofone)
e persino pregiudaici (penso in particolare ad un gruppo di Ebrei
americani che desidera ritornare ai culti politeisti degli Ebrei),
si rischia davvero di arrivare a un totale approssimativo di
millecinquecento milioni di persone. Il che ne fa, o ne farà
presto, il primo gruppo religioso del pianeta. Due potenze nucleari,
l'India e la Cina, sono politeiste - una sotto orpelli modernisti,
l'altra sotto orpelli marxisti. In piena Pechino si costruiscono
templi taoisti, e l'Induismo è divenuto offensivo, dal momento che
missioni indù s'installano ai quattro angoli del mondo”.
La differenza fra le religioni monoteiste – semitiche (ebraismo,
cristianesimo, islam, marxismo) ed il paganesimo come mi sembra noi
lo possiamo intendere, è però piuttosto di tipo etico che non
teologico. Il compito che il moderno druido si può prefiggere (che
il druido si può prefiggere oggi, perché, se non sono
completamente fuori strada, non è che la differenza fra druidi
antichi e moderni sia poi così profonda) è precisamente quella di
riannodare quel legame fra dimensione sacrale ed umana e civile,
quell’ethos e quel nomos che il cristianesimo ha reciso;
riscoprire in altre parole la sacralità della vita e dell’uomo e
delle comunità umane come parte di essa: ammettiamolo
esplicitamente, il paganesimo come noi l’intendiamo è una
religione (la religione) dell’immanenza.
Se Dio è morto, ucciso, non come voleva Nietzsche dal suo amore per
gli uomini, ma dal suo disamore per loro, se il fantasma del Dio
unico è stato esorcizzato dall’impossibilità di rendere conto
del male nel mondo, come sarà possibile credere agli dei?
Allora diciamolo esplicitamente, credere è cosa da cristiani (da
ebrei, da mussulmani, da marxisti), non da noi. Cosa significa
credere? Null’altro che imporre delle limitazioni al proprio
intelletto, sforzarsi di respingere ciò che sappiamo essere vero
per rispetto ai pregiudizi morali che ci sono stati inculcati, voler
pensare che la lepre rumina perché, contrariamente all’evidenza,
così è scritto in un libro vecchio di tremila anni, respingere la
cosmologia moderna, Copernico e Galileo perché la Terra, il luogo
dell’incarnazione divina non può essere un luogo qualsiasi
nell’universo, negare la continuità delle forme viventi nel
grande disegno dell’evoluzione, perché sempre in quel testo
vecchio di tremila anni è detto che Dio creò le diverse specie
separatamente, ciascuna “secondo la sua specie”, è voler
attribuire al “libero arbitrio” ed al peccato umano tutti i mali
del mondo, comprese epidemie e terremoti per assolvere a tutti i
costi un Dio che si suppone onnipotente ed immensamente buono, è
sforzarsi di non vedere, è accecamento volontario, è il contrario
esatto di ciò che significa druidismo, se è vero che il druido è
“colui che vede molto”.
Non c’è bisogno di “credere”, al contrario, occorre liberarsi
dal “modello del credente”, perché se l’esistenza non ha
doppifondi soprannaturali, non può essere svalutata come
“profana” nei confronti di una trascendenza ipotetica, è essa
stessa ad essere sacra, e se abbiamo capito questo, il problema
dell’esistenza “reale” o “simbolica” delle divinità cessa
di avere significato; l’ha messo molto bene in rilievo il
professor Gerard, del cui – magnifico – intervento cito qui un
altro ampio stralcio:
“Il Paganesimo non è mai potuto morire: perché, a immagine e
somiglianza delle innumerevoli divinità che popolano i suoi
innumerevoli pantheon, esso non è mai nato. Se le sue forme antiche
(liturgie, templi...) hanno ceduto il passo ad altre che pure vi si
sono largamente ispirate, tuttavia restano gli archetipi, che sono
essi stessi eterni (...)
Per meglio comprendere questa visione pagana del mondo, è
indispensabile superare i blocchi mentali (…)indotti dal modo di
pensare giudeo cristiano. (…)Il Paganesimo è soprattutto una
conversione dello sguardo, quello che si rivolge su di un universo
del quale noi siamo, insieme alle Dee e agli Dei, una parte
integrante. Per meglio assimilare questa visione pagana, questo
sguardo pagano, dobbiamo liberarci dal modello del
"credente" delle religioni abramiche. Questo termine è
realmente privo di senso per un Pagano: egli non crede, aderisce.
Allo stesso modo, egli non si converte ad un'altra religione, che
sarebbe l'unica vera (e che negherebbe ipso facto tutte le altre
perché false, barbare o rozze). Semplicemente, il Pagano ridiviene
quello che è sempre stato, perché l'anima è naturalmente pagana.
Anima naturaliter pagana.
Liberarsi, dicevo, dal modello del credente. Uno che crede di
potersi assicurare la salvezza individuale ed eterna quaggiù e
nell'aldilà, in seno ad una Chiesa che, di fronte agli
"infedeli" e ad altri eretici, deterrebbe essa sola il
monopolio del Vero e del Bene, e che sarebbe l'unica abilitata a
conferire al credente i sacramenti che fanno di lui un
"fedele" in opposizione agli infedeli", gli altri.
La nostra visione non è dualista, e noi respingiamo come prive di
senso le opposizioni artificiali fra Dio creatore e creature, cielo
e terra, anima e corpo, credenti e non credenti, ortodossi ed
eretici ecc. Il Paganesimo è olistico, non dualista, e il nostro
cammino è soprattutto ricerca di legami più che di rotture. I
nostri Dei non sono persone, con le quali stabilire relazioni
personali, ma Potenze. Essi incarnano la pienezza dei valori
positivi: bellezza, splendore, forza, giovinezza...”.
I valori, l’etica e, come spiega il professor Gerard, “la
conversione dello sguardo” possono e debbono essere quelli del
paganesimo e del druidismo antichi, ma la visione
scientifico/cosmologica sarà quella di oggi: non ha alcun senso
richiamare in vita, ad esempio pratiche rituali legate a concezioni
superate dalla nostra conoscenza del mondo, perché i druidi antichi
lo facevano in un contesto che di necessità non era il nostro; ad
esempio far passare il bestiame fra i fuochi per scongiurare le
epidemie quando nulla si sapeva dei microrganismi, perché, e questo
è un punto essenziale, quello che ci dovrebbe interessare non è
una rievocazione storica, tanto meno una mascheratura carnevalesca,
ma una spiritualità adeguata all’età presente.
Se ci guardiamo intorno, con umiltà ma senza paura, e facciamo
nostri gli insegnamenti della moderna ricerca scientifica, avremo
una sorpresa: essi vanno indubbiamente contro quella visione
cristiana che, come ha scritto uno dei più interessanti autori del
XX secolo, un’anima naturaliter pagana, H. P. Lovecraft, “Induce
a volgere verso terra gli occhi velati”, ma sono in ultima analisi
in piena sintonia con il nostro spirito pagano e druidico. Pensiamo
alla moderna cosmologia. La Chiesa cattolica, nel condannarla e nel
processare Galileo, fu assolutamente coerente, poiché essa spiazza
la Terra – il luogo dell’incarnazione, del Dio fatto creatura
– dalla posizione centrale dell’universo, ma sentirci parte di
una realtà, di un esistere, di un Cosmo in cui non abbiamo un ruolo
centrale e privilegiato e che ci trascende enormemente per
dimensioni, non ci toglie nulla e ci dà in più il senso della
vastità della natura che per noi è sacra.
La teoria darwiniana dell’evoluzione non contrasta solo con la
lettera del testo biblico, ma se l’ordine, forme altamente
complesse possono sorgere mediante la selezione dal caso, allora un
Dio creatore e progettista della vita diventa un’ipotesi non
necessaria, è un colpo di falce che s’infigge profondamente alle
radici del cristianesimo. Se la Chiesa cattolica fa finta di non
accorgersene a differenza delle sette protestanti (nonché
dell’ebraismo ortodosso e dell’islam, del pari
antievoluzionisti), è unicamente perché scottata dal caso Galileo,
preferisce far conto sul fatto che nei paesi latini si tende a non
attribuire alla cultura scientifica la dovuta importanza. Per noi,
la parentela fra l’uomo e tutte le altre forme viventi è una
riprova in più: noi facciamo parte del mondo naturale, non siamo un
ibrido di natura e super natura, esseri scissi, fantasmi dentro una
macchina. I concetti di lotta per la sopravvivenza, di selezione,
con quel che di implicitamente aristocratico che contengono, sono il
migliore antidoto al pietismo cristiano, all’implicita preferenza
per tutto ciò che è debole e malriuscito. Possiamo parlare di
forza, bellezza, salute senza che questo implichi un estetismo
decadente; fino a prova contraria, i decadenti, gli alfieri della
decadenza, sono loro, i cristiani.
Se avremo capito tutto questo, allora comprenderemo che quando
parliamo di paganesimo e di druidismo, parliamo del passato, ma
forse è ancor più del futuro che stiamo parlando.
Darwin
e noi
Il
12 febbraio è stato l’anniversario della nascita di Charles
Darwin, il grande naturalista che nel 1859 formulò la teoria
dell’evoluzione esposta nel libro L’origine della specie. Da
circa un decennio in varie parti del mondo e per la seconda volta
anche in Italia, il 12 febbraio è diventato il Darwin memorial day
con svariate iniziative aventi lo scopo di commemorare ma anche di
propagandare la figura del naturalista inglese del XIX secolo e la
sua opera, la sua teoria.
Negli stessi giorni, un sondaggio svolto negli Stati Uniti ha
rivelato che la maggioranza degli Americani non crede nella teoria
dell’evoluzione, o meglio, le antepone il dogma biblico; né, data
la ventata fondamentalista che oggi percorre l’unica superpotenza
rimasta su questo pianeta, c’era da aspettarsi che le cose
stessero in maniera diversa.
Bisogna notare che l’idea evoluzionista, la possibilità di
correlare tutti i fenomeni vitali secondo una precisa logica, è
precisamente ciò che dà un senso a tutta la biologia, rende una
visione scientifica coerente quelle che altrimenti sarebbero solo
delle osservazioni disparate ed episodiche, non si può prescindere
da essa senza cancellare la biologia come scienza, per dirla con le
parole di Peter Medawar, premio nobel nel 1962:
“L’ipotesi evoluzionista fa parte del tessuto concettuale della
biologia. Solo essa dà un senso alle evidenti interrelazioni tra
gli organismi, ai fenomeni dell’ereditarietà e ai vari tipi di
sviluppo: per un biologo, in alternativa al pensare in termini
evoluzionistici, non c’è che il non pensare affatto” (1).
Noi tutti siamo appassionati di cultura celtica, ma siamo anche
molte altre cose; siamo persone – si suppone – sensate e
ragionevoli, come persone sensate e ragionevoli, abbiamo un ovvio
interesse a che il cieco dogmatismo ispirato dal fanatismo religioso
non prevalga sul pensiero scientifico a base razionale; siamo
europei, gelosi difensori e custodi della nostra identità culturale
e storica, che non gradiscono né il fatto che oggi l’Europa sia
subalterna ad un potere straniero, né che la sua cultura e la sua
identità si perdano nel mare magnum della globalizzazione. Se
Darwin è tanto inviso ai nostri padroni americani, e soprattutto
allo strato meno acculturato, più rozzo, più lontano dalla
sensibilità europea – dalla quale il mondo yankee deriva in forma
degenere – allora potrebbe già valere il detto che “il nemico
del mio nemico è il mio amico”, ma io vorrei chiarire qui un
altro punto: la questione pro o contro la teoria evoluzionistica ci
interessa o ci dovrebbe interessare in quanto appassionati di
cultura celtica, di persone che si riconoscono spiritualmente nel
mondo celtico?
Altra questione non meno importante: i fondamentalisti protestanti
– testimoni di Geova in testa, ma non solo loro – sostengono
l’inconciliabilità della teoria evoluzionista con il dogma
biblico e propendono per una lettura letterale di quest’ultimo,
mentre la Chiesa cattolica ha al riguardo un atteggiamento molto più
accomodante. Chi ha ragione e chi ha torto? La religione nata
duemila anni fa tra la Fenicia e il Sinai e che ha poi scalzato le
fedi tradizionali dell’Europa, grazie soprattutto alla manu
militari, alla violenza, ai roghi delle presunte streghe e dei
presunti eretici, può essere messa in crisi, svelare la sua falsità
nel confronto con il pensiero del naturalista inglese?
Cominciamo da questo secondo aspetto, ed una cosa appare subito
chiara, che è proprio l’atteggiamento transigente assunto dalla
Chiesa cattolica nei confronti della concezione evoluzionista ad
essere un’anomalia che richiede di essere spiegata, nel contesto
dei fondamentalismi monoteistici, poiché, appunto, la teoria
darwiniana trova una profonda incompatibilità non solo nel
protestantesimo radicale, ma anche nell’ebraismo ortodosso e
nell’islam.
A mio parere, al riguardo, l’atteggiamento cattolico trova
spiegazione non in una maggiore compatibilità del cristianesimo
cattolico con il pensiero moderno ad indirizzo scientifico rispetto
ad altre forme di monoteismo, ma in due circostanze storiche
precise; l’esperienza che la Chiesa cattolica ha fatto con il caso
Galileo, e che le ha dato quanto meno la lezione della scarsa
convenienza dell’impelagarsi in uno scontro frontale con il
pensiero scientifico e – cosa probabilmente più importante – il
fatto che la varietà cattolica del cristianesimo è diffusa
soprattutto nei Paesi latini dove avviene che, a differenza di
quelli germanici od anglosassoni, l’importanza della scienza in
termini di visione del mondo è in genere sottovalutata a favore di
una cultura sedicente umanistica, ossia prevalentemente giuridica e
letteraria.
Se noi pensiamo, in effetti, che il problema del conflitto fra
evoluzionismo e monoteismo consista nel fatto che la concezione
darwiniana contrasta con la lettera del testo biblico della Genesi,
siamo ancora molto alla superficie della questione.
Cerchiamo di comprendere bene questo punto, che è fondamentale: gli
esseri viventi sono “macchine” di straordinaria complessità sia
in termini di strutture, sia in termini di funzioni che queste
strutture sono destinate a svolgere: il più semplice batterio ha
una complessità, contiene “un’informazione” di molti ordini
di grandezza superiore del manufatto tecnologicamente più avanzato
che siamo in grado di produrre, e questa complessità non può
essere il prodotto del “semplice” caso. Fino a quando non è
stata avanzata una teoria evoluzionista con un meccanismo
esplicativo basato sulla selezione naturale, cioè fino a Darwin,
nonostante il suo evidente antropomorfismo, l’unica spiegazione
possibile di questa complessità, era che essa fosse l’opera di un
artefice, di un creatore, per l’appunto, infinitamente abile ed
intelligente.
Non il “semplice” caso è all’origine della complessità dei
sistemi viventi secondo la moderna teoria evoluzionista, ma il caso,
il presentarsi di mutazioni casuali di una struttura - il patrimonio
genetico – tendente alla stabilità, più la necessità sotto
forma di selezione naturale che conserva le variazioni più adatte
alla sopravvivenza ed elimina spietatamente le altre, ed ancora
tutto ciò, per produrre la complessità delle forme viventi che
vediamo oggi, ha richiesto che questa selezione si sia protratta -
ad ogni generazione e ogni giorno – per miliardi di anni. Il caso
e la necessità è anche il titolo del testo che è una delle
migliori esposizioni della visione evoluzionista moderna risultante
dalla confluenza della teoria di Darwin con la genetica mendeliana,
del genetista francese Jacques Monod.
Al confronto, possiamo cogliere l’idea monoteista del “divino
artefice” per quello che è: un rozzo antropomorfismo.
La teoria evoluzionista, in effetti, distrugge quello che è forse
il principale argomento della cosiddetta teologia razionale,
l’argomento di Dio come causa prima che occorrerebbe
necessariamente postulare.
Se tuttavia ci limitassimo a considerare l’evoluzionismo soltanto
come una sorta di ariete per scardinare l’arroganza monoteista,
avremmo ancora una visione limitata delle cose.
Siamo sinceri, e siamo espliciti! Se oggi si torna a parlare con
tanta insistenza di neopaganesimo, di neoceltismo, di neodruidismo,
non è per motivi teologici, ma soprattutto perché la religione
maggiormente affermatasi in Europa negli ultimi due millenni sta
dimostrando tutta la sua inadeguatezza al mondo moderno soprattutto
dal punto di vista etico, in particolare è messa esplicitamente
sotto accusa per il fatto di aver diffuso nella cultura occidentale
un atteggiamento di arrogante presunzione di superiorità
dell’uomo rispetto al mondo naturale.
In quest’ottica ed alla luce di questa nuova consapevolezza,
l’evoluzionismo rappresenta qualcosa di più di una “semplice”
teoria scientifica, ma è una conquista culturale di estrema
importanza: per l’uomo occidentale, esso ha significato riscoprire
le sue origini ed i legami profondi con il resto del mondo animale,
la rinuncia, almeno nelle componenti più illuminate della nostra
cultura, a quell’atteggiamento di arrogante superiorità che per
secoli ci ha fatto credere di poter disporre del resto della vita e
della realtà naturale a nostro piacimento e senza curarci delle
conseguenze che alla fine ci sarebbero ricadute addosso; noi non
siamo superiori alla natura e minando l’ambiente mettiamo in
pericolo la nostra sopravvivenza, ma non sono solo motivi
utilitaristici a spingerci oggi ad una nuova coscienza ambientale,
bensì il fatto che sappiamo che ogni specie vivente ha diritto di
per sé all’esistenza, si tratta in una parola del raggiungimento
di un nuovo livello etico, tuttavia questo, senza la consapevolezza
di essere creature naturali imparentate con il resto del mondo
vivente, non sarebbe probabilmente stato possibile.
Si può aggiungere che la religione è un atteggiamento
profondamente connaturato nell’uomo, e quando, come nel caso del
totalitarismo sovietico, ci si è provati ad estirparla con la
forza, si è andati incontro ad una resistenza insormontabile, ma
man mano che prosegue lo sviluppo della conoscenza scientifica,
tanto meno una religiosità di tipo cristiano – monoteista appare
credibile: noi saremmo contemporaneamente dei piccoli esseri su di
un insignificante pianeta perso in un Cosmo incommensurabile ed i
pupilli di un Dio cosmico creatore del tutto che avrebbe creato un
universo di dimensioni inimmaginabili soltanto per la nostra
trascurabile esistenza? Paradossalmente, il paganesimo con le sue
“piccole” divinità “terrestri” ed “umane” da un lato,
dall’altro concepente ciò che regge l’universo come una forza
trascendente ed impersonale: “il fato”, “il destino”, quella
che in termini moderni potremmo definire come “la catena
deterministica degli eventi”, ridiventa molto più credibile; noi
potremmo allora considerare il monoteismo come un gigantesco
abbaglio durato due millenni.
Si può fare ancora un passo ulteriore ed accorgersi che la
relazione fra la visione naturalistica del mondo, nonché
dell’uomo e del suo posto nella natura, che scaturisce dalla
teoria evoluzionista, e la concezione pagana – druidica in primis
– per quel che ci è dato di capire, è ancora più stretta di
quel che penseremmo, ma per poterlo fare, è necessario prima
sgomberare il terreno da alcuni persistenti equivoci che esistono
sul significato stesso dell’evoluzione.
Questo discorso non può prescindere completamente dal legame che è
stato visto fra la concezione evoluzionista e le diverse concezioni
politiche che in qualche modo si è creduto di poterne far derivare,
ma poiché, a mio parere, Darwin è stato ugualmente frainteso sia
“da destra” sia “da sinistra”, credo che questo discorso si
possa sviluppare senza venire meno a quella che è l’apoliticità
di Bibrax, dato che, come vedremo, occorre distribuire “la
botta” ad entrambe le parti.
In Questa idea della vita, il noto divulgatore scientifico Stephen
Jay Gould riferisce che la lettura de L’origine della specie
provocò l’entusiasmo di Karl Marx che vi avrebbe visto
corroborato il proprio “socialismo scientifico” (che in realtà
di scientifico non aveva nulla):
“Nel 1860 Marx scrisse ad Engels a proposito dell’Origine di
Darwin: “Per quanto svolto grossolanamente all’inglese, ecco qui
il libro che contiene i fondamenti storico – naturali del nostro
modo di vedere”.
E’ falso che Marx si fosse offerto, come si vorrebbe far credere
introducendo una nota di colore, di dedicare il secondo volume del
Capitale a Darwin (e che questi abbia rifiutato), ma i due si
scrivevano e Marx aveva un’alta considerazione di Darwin (Ho visto
la copia del Capitale che Darwin aveva nella sua libreria a Down
House. C’è una dedica di Marx che si definisce sincero ammiratore
di Darwin; le pagine del libro sono ancora da tagliare, Darwin non
amava molto il tedesco)” (2).
Marx non nutriva dubbi in proposito: l’evoluzione era una cosa
“di sinistra” e, secondo una certa mentalità ottocentesca la
cosa appariva logica: l’evoluzione culminava nel progresso
politico e sociale destinato a portare le plebi al potere, ed il
fatto che le Chiese si accanissero contro questa teoria scientifica
rendeva ancora più facile saltare a simili conclusioni.
Oggi è piuttosto facile constatare che la teoria evoluzionista di
Darwin - se insegna qualcosa in campo politico - è forse la più
evidente sconfessione delle idee marxiste.
Cosa ci potrebbe essere di più lontano dallo spirito del filosofo
di Treviri del concetto darwiniano di selezione naturale?
Dell’idea di una natura che forgia i tipi superiori attraverso
l’eliminazione spietata dei malriusciti e degli inadatti?
L’importanza di un buon genoma che si accumula e si trasmette
attraverso le generazioni, poi, con cosa potrebbe contrastare
maggiormente che con l’idea che l’uomo sia in tutto e per tutto
foggiato dall’ambiente attraverso l’apprendimento?
Il conflitto fra eredità e ambiente, fra nature e nurture, fra
innato e appreso; o meglio sull’importanza da accordare all’uno
od all’altro tipo di fattori nel determinare ciò che noi siamo,
è uno di quelli che hanno lacerato le coscienze e fatto scorrere
fiumi d’inchiostro, in mancanza del sangue, ma proprio il
perpetuarsi di questo dibattito nella nostra cultura dimostra forse
meglio di qualsiasi altra cosa l’assenza di una mentalità
naturalistica.
Come ha scritto Konrad Lorenz: “L’uomo è per natura un animale
culturale”. In altre parole, l’enorme flessibilità e capacità
di apprendere della nostra specie dipende esclusivamente, è un
prodotto della nostra base genetica; ad esempio, il linguaggio è
totalmente appreso, come dimostra l’enorme pluralità delle lingue
che esistono nel mondo, tuttavia dipende dalla presenza della base
genetica umana: al più intelligente dei nostri cani, non possiamo
insegnare neanche una parola.
Questa base genetica non è uguale in tutti. Il giorno che avessimo
una società che offre davvero a tutti uguali opportunità, non
avremmo una società di uguali, ma una società meritocratica; idea
detestata dai marxisti, che invece amano e predicano
quell’egualitarismo che è il contrario della vera eguaglianza, il
letto di Procuste che stira i bassi e taglia le gambe agli alti.
Frainteso a sinistra, il darwinismo lo è altrettanto - o peggio - a
destra, e per darvene dimostrazione vi racconterò un episodio.
Non moltissimo tempo fa, capitò che il ministro della Pubblica
Istruzione, signora Letizia Moratti, facesse il tentativo di
cancellare l’insegnamento della teoria evoluzionista dalle scuole
medie, tentativo che, stoppato dalla levata di scudi della comunità
scientifica e culturale, fortunatamente non andò oltre.
Capita che in quel periodo vi fosse un insegnante che, cosa strana,
senza essere un sottosviluppato mentale, e senza avere le fette di
prosciutto sugli occhi, avesse simpatie politiche per la destra
radicale, e fosse anche in contatto con diversi forum e diverse
mailing list dell’Area. Capita anche che questa persona fosse
indignata per il tentativo di Donna Letizia, una evidente piaggeria
verso gli Stati Uniti e verso la ventata fondamentalista e
neoconservatrice che oggi pervade il colosso americano, e
quest’uomo, nella sua ingenuità, pensò che alla parte politica
verso la quale andavano allora le sue simpatie, non sarebbe parso
vero di avere un’occasione in più di denunciare la dipendenza
politica e culturale dell’Europa dagli USA, cosa che la destra
radicale ha sempre asserito di trovare quanto meno deprecabile, e
fece la fesseria di inviare messaggi ai siti ed alle mailing list
con cui aveva contatti, invitando a mobilitarsi contro l’azione
censoria di Donna Letizia.
Le reazioni che ottenne furono di due tipi; alcuni lo mandarono al
diavolo, più o meno garbatamente, altri lo ignorarono. Il nostro
professore dovette rendersi conto che i radicali di destra sono
pressappoco tutti creazionisti, per integralismo cattolico, per fede
in quella specie di religione esoterica creata da Julius Evola - più
o meno l’unico maitre a penser o guru che la destra italiana abbia
prodotto – per confusione fra le idee di evoluzione e di
progresso, o semplicemente per pigrizia, anchilosi o calcificazione
mentale.
Un ex scienziato, Giuseppe Sermonti, fratello fra l’altro di uno
dei mini – leader che pullulano nel radicalismo di destra, Rutilio
Sermonti, ed autore di un libello antievoluzionista, La luna nel
bosco, ha recentemente prodotto uno scritto, Nietzsche contro
Darwin, il cui tema è stato poi riproposto in diverse conferenze.
Friedrich Nietzsche, filosofo del nichilismo aristocratico è forse
l’unico pensatore di grande levatura che “la destra” possa in
qualche modo attribuirsi, sebbene il suo franco ateismo, il suo
rifiuto di ogni trascendete indimostrabile la metta costantemente in
imbarazzo. Nietzsche era un antievoluzionista?
Se noi vogliamo partire dal presupposto che gli scritti di un
pensatore servono per rendere noto il suo pensiero e non per
nasconderlo, proprio non si direbbe; se leggiamo quello che è forse
lo scritto più famoso di Nietzsche, Così parlò Zarathustra, uno
dei suoi brani più noti, il Discorso di Zarathustra al mercato,
troviamo:
“Tutti gli esseri crearono qualche cosa che sorpassa loro stessi:
e voi volete essere il riflusso di questa grande marea, e tornare
piuttosto al bruto che superare l’uomo? (…)
Voi avete percorso la strada che porta dal verme all’uomo, ma
molto c’è ancora in voi del verme. Una volta eravate scimmie, e
ancora adesso l’uomo è più scimmia di tutte le scimmie” (3).
Che strano, vero? Sembra proprio di sentir parlare un evoluzionista!
Il fatto è che “destra” e “sinistra” sbagliano alla stessa
maniera sul medesimo punto, confondendo il concetto di evoluzione
con quello di progresso, anche se poi alla risultante di questo
malinteso appiccicano reazioni emotive opposte.
Per capire quanto ciò sia erroneo, basterebbe considerare
semplicemente la scala dei tempi: un homo sapiens anatomicamente
moderno, non distinguibile da noi, esiste su questo pianeta da
qualcosa come 50.000 anni (la stima più alta fissa intorno ai
100.000 anni la comparsa della nostra specie, la più bassa la situa
intorno ai 16.000 anni, con la comparsa dell’uomo di Cro Magnon in
Europa); quando noi invece parliamo di progresso, parliamo di un
mutamento culturale e non biologico iniziato all’interno della
cultura europeo – occidentale nel XVIII secolo con la rivoluzione
industriale od al massimo nel XVII secolo con la rivoluzione
scientifica.
A sua volta, la nozione di progresso è ambigua e contraddittoria,
al punto che si potrebbe dire che è uno di quei concetti che non
esi9stono in quanto corrispondenti ad un oggetto reale, ma soltanto
il ragione di una strumentalizzazione politica.
Si considera assodato che esista una relazione fra progresso
scientifico e tecnologico (il solo ambito nel quale l’utilizzo
della parola “progresso” appare pienamente legittimo) e sviluppo
del rispetto dei diritti umani, delle libertà civili della
giustizia sociale e via dicendo, e tutto ciò è messo in relazione
con “l’essere a sinistra” al punto che, molto spesso, nella
terminologia inconsistente dei dibattiti politici, “di sinistra”
e “progressista” vengono spesso usati come sinonimi
intercambiabili.
Ora, questo è, per usare la terminologia della giurisprudenza, un
vero e proprio abuso della credulità popolare.
Nella storia dell’Occidente moderno, sviluppo scientifico e
tecnologico e progresso dei diritti umani e delle libertà civili
sono storicamente associati, ma è tutto da dimostrare che fra le
due cose esista una connessione intrinseca: le polis greche antiche
ed i Comuni italiani del Medio Evo ci mostrano la crescita delle
libertà civili in assenza di sviluppo tecnologico, e d’altra
parte la storia dei totalitarismi del XX secolo ci mostra
chiaramente che allo sviluppo scientifico e tecnologico non sempre
corrisponde una progressione delle libertà civili e dei diritti
umani, ma che può avvenire esattamente il contrario.
Ma il punto più importante è che, impadronendosi del concetto di
progresso in questa maniera, la sinistra (che presume
automaticamente ma si esime assolutamente dal dimostrare di essere
dalla parte delle classi lavoratrici) ha compiuto una vera e
propria, gigantesca appropriazione indebita.
Consideriamo i Paesi del “socialismo realizzato” nei tardi anni
’80, prima che il tipo di regimi che li governava si dissolvesse
sotto il suo stesso peso, sotto il peso di un fallimento che ha ben
pochi o nessun uguale nella storia.
Con quale incredibile faccia di tolla la sinistra internazionale
osava presentare quei regimi elefantiaci come “progressisti”,
come “democrazie popolari” (questo era il ridicolo eufemismo
allora in uso!)? Si trattava di autocrazie elefantiache dove nessuno
godeva di nessun diritto, eccetto l’élite dirigente al potere, e
molto arretrate rispetto all’Occidente “capitalista” anche dal
punto di vista tecnologico, capaci solo di distribuire ai propri
sudditi oppressione e miseria. Dov’era “il progresso”
qualunque cosa questa parola voglia significare?
E la destra, cadendo stupidamente nel tranello, mettendo cose
diversissime nello stesso sacco (da Darwin a Breznev) non dava
forse, non continua a dare ancora oggi la caccia ad un fantasma?
Questa digressione dovrebbe essere servita a chiarire un punto
fondamentale: possiamo parlare di evoluzione senza essere per nulla
“progressisti”, anzi con la piena consapevolezza dell’ambiguità
di questo termine, pretesto di una strumentalizzazione politica, ed
allora nulla ci impedirà più di cogliere quale è il vero nucleo
essenziale della teoria di Darwin, ossia il ruolo creativo della
lotta per la sopravvivenza e della selezione naturale, che non è
soltanto il carnefice egli inadatti ma, grazie all’accumulo
selettivo di piccole variazioni favorevoli, attraverso i tempi
lunghi della storia delle specie, genera i tipi superiori.
Sgomberato il campo dagli equivoci, torniamo alla domanda
fondamentale, quella dalla quale siamo partiti: quale affinità c’è
fra l’evoluzionismo darwiniano ed il pensiero celtico –
druidico?
Per quanto riguarda il neoceltismo moderno, essa è senza dubbio
molto forte: noi non avremmo probabilmente nemmeno potuto
ricominciare a provare un sentimento di sacralità della natura, se
Darwin non ci avesse insegnato a concepirci come parte di essa, ma
forse è possibile spingerci un po’ più in là.
Tutte le volte che cerchiamo di ricostruire il pensiero druidico
nella sua realtà storica ci imbattiamo nel medesimo problema, la
scarsità di fonti documentali, ma Rolando Dubini, il nostro Myrddin
cui su questo argomento riconosco volentieri una competenza
superiore alla mia, ci ha spesso assicurato sulle pagine di questo
sito, dell’analogia fra il pensiero druidico e quello della
filosofia greca presocratica (ossia anteriore a Socrate), per cui
partirò da questo presupposto, anche se sia chiaro che mi prendo in
toto la responsabilità delle conclusioni.
Adottando questo criterio, quel che si scopre non è di poco
interesse, perché allora ci si accorge che quella linea di pensiero
che attraverso Socrate, Platone ed Aristotele va infine a sboccare
nella filosofia cristiana è una sorta di deviazione dal pensiero
filosofico più antico, forse spiegabile con il fatto che con
Socrate siamo già in un’epoca tarda, di decadenza delle polis,
posteriore alla guerra del Peloponneso, e lo scopo della filosofia
non era tanto conoscere la verità quanto offrire consolazione; ad
esempio, l’abbandono della più moderna e più esatta teoria
astronomica eliocentrica già sostenuta dai Pitagorici a favore del
ritorno al geocentrismo compiuto da Aristotele, potrebbe essere
interpretato come espressione del bisogno di sottolineare la
centralità del mondo umano rispetto a quell’orizzonte
naturalistico nel quale la più antica filosofia greca si era invece
mossa.
Dopo Talete, il filosofo greco più antico, di cui non ci è stato
tramandato nessuno scritto, incontriamo il suo discepolo
Anassimandro che ci si presenta con un pensiero – purtroppo un
frammento – di notevole spessore:
“Da dove le cose hanno origine, là esse ritornano. Morendo, i
viventi pagano l’uno all’altro il fio dell’ingiustizia
commessa vivendo”.
Analizzando i concetti espressi, vi troviamo una grande complessità:
la vita, l’esistenza, prima di tutto è ciclica; inevitabilmente,
prima o poi, ogni cosa deve ritornare a quel nulla, a quel non
essere originario dalla quale è emersa.
Vivere, in secondo luogo, significa commettere ingiustizia, la vita
si nutre di altra vita per poter esistere: gli animali erbivori si
nutrono di piante, i carnivori di erbivori. Vivere significa causare
e patire dolore. Lo si riconoscerà, siamo molto vicini al concetto
darwiniano di lotta per la vita, ed alla visione di una natura che
non ha alcuna misericordia per coloro che soccombono. Sarà
un’opinione personale, ma a me sembra di cogliervi anche – come
dire – un’eco anticipatrice del concetto esistenzialista di
Kerkegaard per il quale “esistere” è un “ek-sistere”, un
“porsi fuori” dall’indifferenziato grembo del non essere,
l’esito di una sorta di ribellione e quindi in un certo qual modo
compiere un’ingiustizia.
Vista da una certa distanza la vita è equilibrio, è armonia, ma
considerato da vicino “il cerchio della vita” è assai meno
idilliaco di quanto non reciti la pellicola – favola del Re Leone.
Non possiamo immaginarci una gazzella che, caduta sotto gli artigli
di un grosso felino, riesca ad apprezzare l’equilibrio e
l’armonia superiori che portano alla sua morte, nel momento in cui
questi la sta sbranando.
Io direi che qui sono avvertibili anche le somiglianze con il
pensiero indiano e buddista: la vita come violenza ed il desiderio,
l’istinto vitale come causa di sofferenza, che a sua volta
costituisce un karma che andrà espiato, e ci dà l’impressione di
essere molto vicini ad un originario fondo di pensiero indoeuropeo
che senz’altro i druidi possono aver condiviso, e questo ci
darebbe una conferma delle tesi di Rolando Dubini, ma c’è ancora
una cosa che va notata a questo riguardo.
Talete, Anassimandro e tutti gli altri prima di Platone non si
definivano, non erano chiamati filosofi, ma sofoi, saggi oppure
fisiologoi, studiosi/conoscitori della natura. Il termine filosofo,
filo – sofos, amante della conoscenza, è introdotto da Platone,
ma facciamo attenzione, ci spiega il grande studioso della cultura
greca Giorgio Colli, se questo termine in Platone significa ancora
la ricerca di una conoscenza perduta da ritrovare, è con Aristotele
che esso assume il significato della ricerca di una conoscenza
nuova, mai da nessuno posseduta, che il filosofo inventa grazie alla
forza del suo ingegno. E’ a partire da Aristotele, quindi a
trapasso concluso dalla civiltà classica all’ellenismo, che il
termine “filosofo” assume il significato che gli diamo oggi, di
elaborazione mentale personale astratta, talvolta frivola, perché
– come faceva osservare Cicerone – tra i filosofi ha maggior
reputazione chi inventa un’assurdità nuova che chi ripete una
verità detta da altri.
Fino ad allora, i sofoi o fisiologoi erano delle scuole, delle
comunità di saggi che si trasmettevano attraverso le generazioni un
sapere condiviso, riguardante sia gli insegnamenti etici sia la
conoscenza del mondo naturale, in modo sostanzialmente analogo ai
druidi ed alle scuole vediche dell’India.
Da questo sottofondo comune, si arriva però presto alla grande
biforcazione del pensiero indoeuropeo in orientale ed occidentale:
una volta constatata la tragicità dell’esistenza, di cui
Anassimandro dimostra una così chiara consapevolezza, possiamo
riconoscerla oppure negarla (l’idea che il mondo si regge su di
una legge di sofferenza, che la nostra stessa vita, per poter
continuare, deve costantemente alimentarsi di altra vita, è
un’idea che fa male), possiamo persuaderci che questo mondo, con
la sua catena di dolori e morte è soltanto apparenza, ed è questa
la via scelta dal pensiero orientale; si pensi, ad esempio alla
Baghavad Gita, al dialogo tra Krishna e Arjuna (Il guerriero Arjuna
è riluttante a scendere in battaglia pensando alla sofferenza che
causerà; il suo auriga Krishna, che è in realtà un’incarnazione
del dio Visnù, lo rassicura: il dolore, la morte, coloro che crede
di avere davanti come nemici, in realtà non esistono).
Partendo da basi del tutto diverse, il cristianesimo e le religioni
semitiche arrivano a conclusioni simili: il male e la sofferenza nel
mondo sono in realtà parte di un “bene” superiore,
l’imperscrutabile volontà di un Dio che non possiamo giudicare.
Riconosciuta la tragicità dell’esistenza, possiamo cadere nel
pessimismo paralizzante di Kierkegaard, oppure accettarla, poiché
essa è il prezzo necessario della bellezza e della gioia; è questo
lo spirito del nichilismo aristocratico di Nietsche, ed è l’unica
filosofia compatibile con il pensiero evoluzionista e con il ruolo
creativo che esso assegna alla dura legge della selezione naturale.
Tornando ad Anassimandro, le analogie con il pensiero evoluzionista
sono più forti di quel che crederemmo: non solo il senso ella vita
riposto nell’ineludibile lotta per la sopravvivenza, ma, di più,
l’idea che l’uomo deve discendere da antenati non umani, poiché,
essendo il cucciolo dell’uomo totalmente inetto, a differenza di
quelli di molte altre specie, come avrebbero fatto altrimenti i
primi uomini a sopravvivere durante l’infanzia?
Inoltre, seguendo probabilmente in questo l’insegnamento del suo
maestro Talete che sosteneva essere l’acqua l’arché, il
principio di tutte le cose, egli riteneva che la vita terrestre
avesse avuto antenati acquatici.
Tuttavia il pensatore che ci dà più di ogni altro l’impressione
che i venticinque secoli che lo separano da Darwin e da Nietzsche
siano stati una lunga e tutto sommato improduttiva digressione, non
è Anassimandro, ma Eraclito, il grande Eraclito che fu forse suo
discepolo, e del quale Nietzsche disse di “metterne a parte il
nome con venerazione”.
Eraclito fu detto dai suoi contemporanei skoteinos, “oscuro”,
poiché, esattamente come Darwin e come Nietzsche, parlava un
linguaggio talmente chiaro da indurre i più a preferire di non
capire.
Eraclito è noto come il filosofo del panta rei, del “tutto
scorre”, del “non ci si bagna due volte nello stesso fiume,
perché l’acqua nella quale ci eravamo immersi la prima volta è
già scorsa a valle”, ma è soprattutto il pensatore che vede il
mondo, nella sua essenza, basato sul conflitto, sull’antagonismo,
la lotta, l’equilibrio dinamico di tensioni opposte che scrive che
“Omero ed Esiodo, che pregano gli dei di dare la pace al mondo,
non sono consapevoli di pregare per la morte del mondo”.
Egli fa il paragone dell’arco che, in quanto tale, esiste soltanto
perché le opposte tensioni della corda e dell’asta sono in
equilibrio; se prevale la tensione della corda e l’asta si spezza,
non avremo più l’arco ma una corda con due pezzi di legno alle
estremità; se prevale la tensione dell’asta ed è la corda a
spezzarsi, avremo invece un bastone con alle estremità due
funicelle.
Eraclito non si ferma a questo: il conflitto fra tensione
antagoniste, la guerra, la competizione, non solo mantengono
l’equilibrio del mondo, ma, e qui pare veramente di leggere Darwin
con venticinque secoli di anticipo, hanno un potere creatore, sono
il potere creatore, egli scrive:
“La guerra è madre e regina di tutte le cose”.
E’ vero però che subito dopo egli sposta l’attenzione dalla
realtà naturale al mondo umano, aggiungendo:
“Di alcuni essa fa degli uomini, di altri degli dei”.
Questo è un punto molto delicato sul quale occorre essere
estremamente chiari: l’evoluzionismo correttamente inteso, a
differenza di quel che pensavano alcuni esegeti ottocenteschi di
Darwin (ma mai lo stesso Darwin) non implica, non raccomanda, non
giustifica per nulla la guerra od un atteggiamento brutale nei
rapporti umani.
Occorre distinguere con molta chiarezza la competizione che in
natura esiste fra le specie e quella all’interno della medesima
specie.
La prima, unitamente alla selezione che ne deriva, è effettivamente
il meccanismo motore dell’evoluzione: pensiamo ad una specie di
predatori e ad una di prede: leopardi e gazzelle o falchi e lepri, o
quanti esempi volete, la competizione delle due specie, degli uni
per procurarsi il cibo, degli altri per sfuggire alla predazione,
produce la selezione di entrambe le specie, perché saranno i
predatori più abili a procurarsi il pasto e le prede più agili e
veloci a sfuggire alla cattura; dal punto di vista evolutivo, le due
specie collaborano al reciproco miglioramento; i biologi la chiamano
co- evoluzione.
La competizione fra membri della stessa specie, invece tende a
produrre risultati “mostruosi”: è il caso della selezione
sessuale che ha prodotto le code esagerate e d’impaccio
all’animale per qualsiasi altra attività che non sia il richiamo
della femmina, del pavone e del fagiano argo, o della chela
ipertrofica del granchio violinista maschio; è il caso, molto di più,
non solo della guerra, ma dell’eccesso di competitività a tutti i
livelli che si è instaurato nelle società umane.
Konrad Lorenz ha dedicato agli effetti abnormi della selezione
intraspecifica, della guerra e dell’eccesso di competitività
nella nostra specie, alcune delle pagine più interessanti del libro
Gli otto peccati capitali della nostra civiltà:
“Al contrario della selezione causata da fattori ambientali
estranei alla specie, la selezione intraspecifica modifica il
patrimonio genetico della specie considerata attraverso alterazioni
che non solo non favoriscono le prospettive di sopravvivenza della
specie, ma, nella maggior parte dei casi, la ostacolano” (4).
Tanto più certamente oggi che le guerre non sono decise in alcun
modo dalla superiorità fisica o genetica dei contendenti ma
esclusivamente dal loro livello tecnologico, esse non esercitano
alcuna funzione selettiva, ma esclusivamente distruzione
indifferenziata, ma possiamo incolpare Eraclito di non aver compreso
questo in un’epoca in cui le maggiori innovazioni tecnologiche
dell’arte bellica erano ancora la spada di ferro e la corazza di
bronzo dell’oplita? Farlo equivarrebbe a fargli colpa di essere
stato un uomo della sua epoca e non della nostra, tanto più se
pensiamo che ancora nel XX secolo, alla vigilia dello sprofondamento
dell’Europa nel baratro delle due guerre mondiali un Filippo
Tommaso Martinetti proclamava: “Guerra, sola igiene del mondo”.
Piuttosto, dovremmo ammirare la grande intuizione circa il ruolo
creativo della lotta per l’esistenza che precorre Darwin di due
millenni e mezzo, concepita senza disporre dei metodi d’indagine
della scienza moderna, ma probabilmente frutto di una conoscenza
empirica, di una protratta familiarità con il mondo naturale che
noi, civilizzati ed auto – addomesticati (direbbe Konrad Lorenz)
uomini moderni non riusciamo più, perlopiù, ad avere.
Se esiste un’affinità fra pensiero druidico e filosofia greca
presocratica, ipotesi che mi sembra esca rafforzata da
quest’esposizione, se quest’ultima ha precorso il pensiero
evoluzionista di Darwin, se l’evoluzionismo stesso si può
considerare il ritorno, non deliberato ma obiettivo, ad un sapere
naturalistico precedente, allora non ci sono dubbi: Charles Darwin
è uno dei nostri.
Note
1) La citazione è riportata nell’articolo di Massimo Cappon
L’evoluzione nella tempesta, “Airone” n. 9, gennaio 1982
(numero speciale per il centenario di Darwin), Giorgio Mondadori,
pag. 72.
2) Stephen Jay Gould: Questa idea della vita (Ever since Darwin)
Editori Riuniti, Milano 1984, pag. 18.
3) Friedrich Nietzsche: Così parlò Zarathustra (Also sprach
Zarathustra), Mursia, Milano 1972, pag. 19.
4) Konrad Lorenz: Gli otto peccati capitali della nostra civiltà (Die
acht Todsunden der zivilisierte Menscheit), Adelphi Milano 1977,
pag. 43
Druidismo
e Pitagorismo
"Presso
di loro la dottrina di Pitagora conosce un successo particolare,
dottrina secondo la quale l'anima umana è immortale e che dopo un
numero determinato di anni ogni anima ritorna alla vita con un altro
corpo..."
Diodoro
Siculo, Biblioteca Storica, V, 2, 8.
I
Celti erano considerati dai Greci e dai Romani popoli bellicosi ed
incostanti, amanti alla follia del vino, sprezzanti della morte e
delle più elementari leggi del vivere civile. Per loro fu coniato
il termine greco "Barbaros", derivante dal fatto che ai
greci la lingua celta suonava come un balbuziente ripetersi del
suono "ba", che da allora divenne sinonimo di genti
incivili e selvagge.
Nonostante
questo i sacerdoti celti, i Druidi, godevano di grandissima fama e i
letterati alessandrini non esitavano ad accostarli ai sapienti
astrologhi e matematici babilonesi, ai "sahdus" dell'India
vedica e ai saggi persiani, tutti ispiratori della filosofia greca.
Di
tutti questi sapienti il denominatore comune era senza dubbio
Pitagora, grande viaggiatore che visitò paesi lontani come l'Egitto
e l'India. A cominciare dal I sec. a.C. gli eruditi greci
stabilirono dei paralleli tra il pitagorismo e il druidismo,
cercando di stabilire quale dei delle due filosofie fosse la più
antica e quale fosse stata ispirata dall'altra.
Dal
punto di vista di questi eruditi i punti in comune erano molti e
fondamentali; durata e carattere segreto degli insegnamenti,
l'abbigliamento bianco, la vita comunitaria, l'interesse per
l'astronomia e per i numeri... Ma il legame più evidente era la
fede nella dottrina della reincarnazione delle anime, che i greci
chiamavano metempsicosi.
Alcuni
pensavano che il druidismo avesse fortemente influenzato Pitagora,
ma sappiamo oggi che cronologicamente ciò non è possibile poiché
nel VI sec. a.C. in gallia i Druidi non erano ancora comparsi, ma
esistevano solo Re sacrali, come il principe Hochdorf. Ma non è
impossibile il contrario, ovvero che la dottrina pitagorica fosse
conosciuta dai Druidi. Infatti se si dovesse dar credito a papa
Ippolito (III sec. a.C.) il pitagorismo sarebbe stato trasmesso ai
Druidi da Zalmoxis, uno schiavo tracio al servizio di Pitagora.
O
forse semplicemente i celti vennero in contatto con la dottrina
pitagorica in Magna Grecia, dove combatterono come mercenari a più
riprese a partire dal IV sec. a.C., questa ipotesi trova supporto in
una serie di monete galliche ritrovate nel nord della Francia e
realizzate ad imitazione di quelle in uso nelle città
"pitagoriche" italiche, in special modo a Taranto.
In
effetti è più probabile che i druidi abbiano crearono una
filosofia indipendentemente col solo scopo di convincere che
"le anime sono eterne ed esiste un'altra vita presso i
morti", arrivando ad elaborare una visione del mondo di cui ci
restano che pochi frammenti e contenente una spiegazione
sull'origine dell'uomo, nato in modo originale da un dio infero
partorito dalla terra, una visione escatologica sulla fine del mondo
(Giovenale scrive "è da temersi la caduta del cielo, come
indicano i galli") e una morale che Pitagora stesso non avrebbe
rinnegato.
›
Copyright
Autore Kal di Bibrax | Pubblicato il 29/05/2002
Druido:
una parola misteriosa
Per
quanto possa sembrare una questione futile, schiere di studiosi a
cominciare addirittura da Plinio il Vecchio si sono scontrate sul
significato del termine "Druido", che distingueva i membri
della classe sacerdotale celtica, comparabile nelle sue funzioni a
quella dei bramini dell'India.
Ma
esaminiamo da vicino questo termine.
Druid, che nelle lingue celtiche continentali potrebbe
probabilmente essere declinato al nominativo in druis, da un
più antico druwi(d)s, genitivo druidos ed al
nominativo plurale in druides, è conosciuto grazie ai
numerosi richiami presenti nelle lingue classiche: druìdés
(plurale druìdai) in greco (Aristotele e Strabone) e druides
(genitivo druidum) in latino (Cesare, dBG) nella flessione
atematica della terza declinazione, probabilmente la più vicina al
modello grammaticale celtico.
L'antico
irlandese conferma questa flessione poiché ha al nominativo
singolare druì (da druwis) che diventa nella lingua moderna draoi
(pronuncia dri), e al nominativo plurale druid (da druwides)
che diventa druidi, ovvero "druido, mago,
stregone". Il termine può essere paragonato nella sua
composizione a suì, "sapiente, saggio", composto
da su-wids che deriva direttamente dal sanscrito sù-vidvams
ovvero "colui che conosce bene", oppure a dui,
"ignorante", composto da du-wids. Le forme
brittonniche derwydd (gallese), "indovino", e dorguid
(bretone) hanno invece una diversa composizione (do-are-wid,
"colui che vede in avanti") e non devono essere confuse
con il termine in esame.
L'etimologia
di druid che si deve quindi scomporre in dru-wid,
mette in risalto il suffisso wid sul quale tutti gli studiosi
sono d'accordo nel vedervi la radice indoeuropea ueid,
"sapere", véda in sanscrito, oide in greco,
weiss in tedesco, uideo ("io vedo"), fiss
nell'antico irlandese da cui fiadu, "sapiente,
maestro" e così via.
Quindi
il termine druid ha una componente che significa
indubbiamente "sapiente, colui che sa", mentre la prima
parte dru è oggetto di discussione accademica avente due
possibilità:
I
Druidi e la dottrina dell'immortalita'
“A
voi solo è dato sapere la verità sugli dei e sulle divinità del
cielo...
Vostra dimora sono le macchie più riposte delle foreste più
remote.
Voi insegnate che le anime non cadono nelle silenti sedi
dell’erebo o nei pallidi regni del sotterraneo Dite, ma che lo
spirito passa a reggere altre membra in un altro mondo: la morte, se
è vero ciò che insegnate, è il punto intermedio di una lunga
esistenza”.
Lucano
Pharsalia I, 450-458 passim
Questi
pochi versi del poeta latino Lucano (I D.C.) contengono, come è
facile cogliere ad una prima lettura, un accenno alla dottrina
druidica sulla morte e la sorte dell’anima del defunto; se ci si
volge ad un esame capillare di tutte le fonti antiche che si
occupano del druidismo o della civiltà celtica più in generale,
appare evidente che tale riferimento costituisce un vero e proprio
leit-motiv, ancor più singolare se si considera il carattere
eminentemente pragmatico della storiografia antica.
Naturalmente
poco portato ad approfondire speculativamente le proprie
osservazioni, uno storico-militare come Cesare, ad esempio,
vede nella dottrina dell’immortalità poco più di una
“favoletta” raccontata ad arte per incoraggiare i soldati alla
lotta e Valerio Massimo, un secolo più tardi, avrà buon gioco a
ridicolizzare nella sua opera l’usanza celtica di concedere e
richiedere prestiti in fin di vita con l’intento di restituire o
riscuotere post mortem (Fact. et. dict. memor. II, 6, 10).
Se
gli storici strictu senso non offrono più che un accenno alla
problematica proposta dalla teoria della sopravvivenza dell’anima,
nelle opere di filosofi o studiosi di filosofia, il credo druidico
trova maggiore spazio, essendo continuamente accostato e confrontato
con la filosofia classica. Nell’interpretazione di questi autori,
infatti, i druidi sono veri e propri filosofi, le cui speculazioni
richiamano dottrine e teorie già note: nel caso della
“filosofia” druidica il costante richiamo è a Pitagora e alla
sua scuola. Clemente Alessandrino (Stromata I, XV, 70, 1), citando
Alessandro, sostiene che Pitagora, di cui la tradizione ricorda i
numerosi viaggi, dopo essere stato allievo di un Assiro, ebbe modo
di perfezionarsi tra i Galati (sic) e i bramini.
Ippolito,
poco più tardi (III d.c.), capovolge la questione (Philos.I, 24):
sono i druidi ad avere appreso la teoria pitagorica della
trasmigrazione delle anime dal tracio Salmoside, servo di Pitagora
stesso.
Nonostante
la diretta testimonianza delle due fonti appena citate, è assai
difficile per gli studiosi credere
ad un effettivo contatto tra dottrina pitagorica e pratica druidica,
per un duplice ordine di motivi: in primo luogo il pitagorismo,
fenomeno limitato anche in ambito mediterraneo, si configura sin
dalla sua nascita come pratica misterico-esoterica per una nicchia
di ricchi e colti fruitori: è dunque assai improbabile che possa
aver valicato i limiti del proprio bacino d’utenza per diffondersi
a più ampio pubblico. Le dottrine druidiche sulla morte, d’altra
parte, appaiono comuni a molti popoli primitivi senza che si debba
per forza implicare qualche contatto e, inoltre, ad un esame più
minuzioso, non solo travalicano il credo pitagorico ma spesso ne
costituiscono una palese violazione.
La
già citata testimonianza di Valerio Massimo sulla possibilità di
restituire o incassare debiti nell’altra vita, ad esempio, implica
come possibile la fruizione di beni terreni dopo la morte,
inconcepibile nel pensiero del filosofo greco.
Quel
che, a ben vedere, sembrano testimoniarci i ritrovamenti
archeologici, invece, è l’opinione diffusa che il defunto dimori
per un certo tempo all’interno del suo sepolcro per poi spostarsi
altrove: un esempio è ravvisabile nel ricco corredo funerario
proveniente da una tomba principesca di Hochdorf (l’odierna
Eberdingen, nella regione tedesca del Baden-Württemberg), che
annovera oltre a suppellettili ed utensili di comune utilizzo, un
carro equipaggiato per gli eventuali spostamenti del morto. Il fatto
che l’anima potesse servirsi di materiale umano o prodotto da mano
umana è ulteriore testimonianza del fatto che più che di una
possibile trasmigrazione in altro corpo, i druidi ritenessero che
essa potesse conservare immutate le proprie sembianze umane, come
pure i propri bisogni e necessità.
›
Copyright
Autore Filippo Liuti | Pubblicato il 01/01/2002
La
realta' Druidica
"...Tra
i Celti e i Galli vi sono persone chiamate Druidi..."
(Diogene
Laerzio)
Che
cosa vuole dire la parola "Druido", e quale la sua
provenienza?
Nei testi classici la troviamo solo al plurale: druidai in greco e
druidue o druides in latino. Nei testi in antico irlandese, dnuid
è il plurale di dnui..
Il
druidismo da sempre è stato un sistema vivo e in costante
evoluzione e mutamento, che con il trascorrere del tempo integra in
sé influssi provenienti da ciò che gli sta intorno. Non è facile
distinguere uno per uno i diversi influssi e non possiamo mai essere
sicuri di averli identificati con precisione. Se questo è vero
per quanto riguarda il druidismo come complesso di pratiche o
credenze, ciò vale anche per la stessa parola "druido".
Non tutti gli studiosi sono concordi circa la sua etimologia, ma
la maggior parte degli esperti contemporanei concordano con gli
autori classici nel considerare più probabile un'origine della
parola dal termine che significa "quercia" unito alla
radice indoeuropea wid, "sapere", consentendo loro di
tradurre la parola druido come "colui che ha il sapere della
quercia", "saggio della quercia". Moltissimi sono gli
elementi che corroborano questa etimologia, come possiamo notare
dalla parola "quercia" nelle quattro lingue sotto
indicate:
daur
(irlandese, "quercia"- drui "druido"); dervo
(gallico, "quercia"); derw (gallese, "quercia"-denvydd
"druido"); drus (greco, "quercia")
Anche
se a prima vista può sembrare strano che le conoscenze dei druidi
fossero limitate a un unico albero, è facile capire che, se questa
etimologia è giusta, la quercia sarà stata scelta simbolicamente
perchè rappresentasse tutti gli alberi, dal momento che essa era
uno dei membri più vecchi, imponenti e riveriti della foresta.
Colui che possedeva il sapere della quercia possedeva il sapere di
tutti gli alberi. Ulteriore sostegno all'idea che la parola
"druido" unisca i concetti di conoscenza e di alberi lo
possiamo trovare nel fatto che in irlandese gli alberi sono fid e la
conoscenza è fis, mentre in gallese gli alberi sono gwidd e gwiddon
è "il conoscitore"; da ciò si può avanzare l'ipotesi
che il druido fosse una persona dotata della "conoscenza
degli alberi" o fosse un vero e proprio saggio dei boschi.
Dato
che comunemente la parola per indicare questi personaggi è
"Druido" spesso è frequente l'interrogativo sul se
esistessero anche Druidesse
Un
errore che si compie comunemente nel rappresentarsi il druidismo
consiste nel pensare che esso sia patriarcale. È, sì, vero che
quando cominciò la rinascita, nel XIX secolo, i gruppi di neo -
druidi erano dominati dai maschi, un po' come nel caso della
massoneria. Tuttavia, pur essendoci ancor oggi gruppi ancora
influenzati dal carattere patriarcale del druidismo della rinascita,
è importante rendersi conto che questo non appartiene alla
autentica pratica druidica. Sia le narrazioni classiche sia le
narrazioni celtiche ci mostrano che accanto ai druidi esistevano
delle druidesse, e la legge celtica concedeva la parità alle
donne, permettendo loro di scegliersi il marito, di divorziare, di
possedere ed ereditare proprietà, di combattere e diventare capi
militari, come ben sappiamo dalla storia di Boadicea.
Cercare
di capire chi erano i druidi porta ad assistere a una battaglia tra
due ideologie, due modi di concepire la vita: quello materialista e
quello spirituale. L'interpretazione della storia dipenderà
dall'ideologia o dalla filosofia cui daremo il primo posto, e finché
non avremo ben chiaro come il modo di porsi influenzi
l'interpretazione del passato lo studio dei druidi sarà estremamente
confuso.
La
maggior parte dei libri sui druidi hanno messo insieme materiale
storico fattuale e materiale esoterico o speculativo in un modo che
sovente è poco chiaro e tale da giustificare l'accusa rivolta ai
loro autori dalle autorità accademiche di mescolare fantasia e
fatti. Un numero minore di libri si sono limitati al materiale
fattuale disponibile e si sono presentati come studi storici
oggettivi sui druidi. Ma commetteremmo un grosso errore se
pensassimo che questi testi "oggettivi" presentino le cose
in modo reale, dal momento che la presa di posizione ideologica
dell'autore che a essi soggiace influenza intimamente il modo in cui
egli presenterà e interpreterà i suoi dati. Per quel che riguarda
il druidismo i dati sono particolarmente frammentari. Sono
sufficienti per formarci un'immagine di chi fossero e di che cosa
facessero e in che cosa credessero, ma si tratta di un quadro cosi
scarno che siamo costretti a basarci in gran parte su deduzioni, e
in questo processo di interpretazione dei dati saremo guidati dal
nostro modo di porci filosoficamente nei confronti della vita: la
nostra concezione di chi sia realmente l'uomo e perché egli sia al
mondo.
Chi
erano i druidi?
Da
dove venivano i druidi? Alcuni dicono da Occidente, altri da
Oriente. Alcuni vogliono che essi abbiano avuto origine in
Atlantide, a Occidente, altri ipotizzano che i druidi quali noi li
conosciamo dai testi classici siano il prodotto della fusione di
una cultura neolitica locale con i Celti sopraggiunti da Oriente.
La
storia esoterica delle radici del druidismo è bella e affascinante.
I maghi di Atlantide avevano svelato i misteri della natura ed
agivano in armonia con la sua potenza. Ma vi furono alcuni che
usarono questa stessa potenza per i propri fini, allo scopo di
dominare e manipolare gli altri. "La Guerra di Atlantide fu la
guerra della magia bianca contro quella nera, tra coloro che
vedevano nella Natura la grande Madre Divina degli uomini e usavano
i suoi doni per il benessere del genere umano, e quelli che vedevano
nella Natura la Tentatrice Satanica, che faceva offerte di oscuro
dominio e crudele potenza" (Eleanor Merry). Quando la
catastrofe si abbatté su Atlantide, i signori oscuri si
inabissarono mentre cercavano di tenersi stretti al loro potere
temporale. I saggi bianchi, invece, dotati di conoscenze superiori e
di una più profonda fede nella supremazia della ricchezza
spirituale su quella materiale, si misero in viaggio sia verso
Oriente sia verso Occidente. A Ovest, essi sbarcarono sulle coste
americane, a Est sulle spiagge irlandesi e sulle coste occidentali
della Gran Bretagna.
Se
accettiamo questa teoria sulle origini dei primi druidi, saremo in
grado di renderci conto più agevolmente del motivo per cui esistono
così tante impressionanti somiglianze tra le dottrine e le pratiche
degli Indiani d'America e quelle dei druidi.
Nelle
fonti letterarie antiche non esistono testimonianze che accennino
alla provenienza da Atlantide dei druidi. Tuttavia, nella tradizione
celtica trovano posto inondazioni catastrofiche, e nel Libro Nero
di Camarthe, per esempio, una fanciulla di nome Mererid porta allo
scoperto "la fontana di Venere" dopo essere stata stuprata
da Seithennin. Dopodiché l'acqua della fonte ricoprì la Terra.
In
Gran Bretagna si narra la storia di Ys inghiottita dalle acque. La
malvagia figlia del re praticava la magia nera, e impossessatasi
della chiave che il padre teneva al collo e che apriva la diga che
proteggeva Ys dal mare, riuscì a far sprofondare il regno e se
stessa allo stesso tempo.
Ambedue
questi racconti, come pure alcune antiche storie del Graal, parlano
degli stessi fatti accaduti ad Atlantide: una violenza fatta alla
natura il cui esito è lo scaturire delle acque che inondano le
terre. Lo stupro della vergine Mererid, per esempio, può essere
visto come un'immagine mitica della violenza fatta alla natura dai
maghi di Atlantide dediti alla magia nera. Il fatto che la violenza
scateni allagamenti incontrollabili ben si adatta dal punto di
vista simbolico, perché ciò che sfrutta le terre è la
consapevolezza analitica maschile non addomesticata dall'unione con
il femminile, ed è la potenza vendicatrice del femminile,
simboleggiata dalle acque, che è costretta a sommergere
l'insensibile maschile. Ed è strano osservare come oggi la storia
sembri sul punto di ripetersi, con le acque prodotte dallo
scioglimento delle calotte polari che innalzano il livello dei mari
in risposta alla nostra violenza sulla biosfera.
Nel
Lebor Gabala Érenn (Libro della conquista dell' lrlanda) si parla
del diluvio biblico, ma Caitlín Matthews ha avanzato l'ipotesi che
per questa e per altre storie "sia forse a qualche vaga
reminiscenza di Atlantide e della fanciulla a guardia della fonte
che si ispirarono alcune delle storie nel loro aspetto
primitivo" Quel che è certo è che la tradizione celtica parla
di sei razze che sono giunte in Irlanda dall' "al di là della
nona onda" (l'estremo confine delle terre al di là del quale
si stendono i mari neutrali) La Compagnia di Cessair, la Compagnia
di Partholon, il Popolo di Nemed, i Fir Bolg, i Tuatha de Danaan e
i Milesii. Il Libro della conquista dell'lrlanda fa una cronaca
delle invasioni di queste sei razze, cercando di integrare memorie
dei bardi e tradizione biblica, facendo di Cessair la nipote di Noè.
Ma sono i Tuatha de Danaan, i Figli di Danu o Dana, la razza divina
che ha preso dimora nelle vuote colline del sidhe al sopraggiungere
dei Milesii, quelli che alcuni esoteristi identificano negli stessi
Atlantidi.
Coloro
che sostengono l'origine del druidismo da Atlantide avanzano
l'ipotesi che, mentre alcuni degli emigrati dalle Terre Lucentie si
sarebbero stabiliti in Irlanda e Gran Bretagna, altri avrebbero
proseguito alla volta dell'Asia e dell'India, alcuni attraverso un
percorso più settentrionale, altri attraverso un percorso più
meridionale. In seguito, i discendenti di questi emigrati sarebbero
rifluiti da est a ovest, ed è, secondo loro, questa seconda
migrazione quella che venne scelta da alcuni storici essoterici per
concentrarvi la loro attenzione riguardo alle origini del druidismo.
Lasciando
da parte la teoria delle origini da Atlantide, la cui accettazione
è a discrezione di ciascuno, possiamo ora rivolgerci alle teorie più
convenzionali sull'origine dei druidi, che sono basate più su fonti
di informazione storiche essoteriche che non su fonti esoteriche o
chiaroveggenti. Dell'esistenza dei druidi siamo a conoscenza mediante
le opere degli autori classici. La prima menzione dei druidi si ebbe
in due opere distinte risalenti rispettivamente al 200 a.C. e al
400 a.C. circa, che sfortunatamente sono andate perdute. Nel III
secolo d.C., Diogene Laerzio, nella prefazione delle sue Vite dei
Filosofi, menziona il fatto che i druidi erano stati descritti in
un libro del greco Sozione di Alessandria e in un trattato sulla
magia attribuito ad Aristotele. Gli storici ritengono plausibile
l'esistenza del libro di Sozione, scritto nel II secolo a.C., mentre
considerano apocrifa l'opera di Aristotele del IV secolo a.C. Se si
ammette una concezione mitica o poetica delle origini dei druidi,
non stona né il non poter essere sicuri se la più antica
registrazione di questa tradizione sia realmente esistita né il
fatto che la seconda attestazione in ordine di tempo esista sì,
ma non in una biblioteca bensì nell'intangibile mondo in cui viene
registrato solo il ricordo della sua esistenza, più di
cinquecento anni dopo che essa era stata messa per iscritto. In
questo modo, la nostra conoscenza del druidismo emerge dal regno
dell'ignoto facendosi strada un po' alla volta più che manifestarsi
all'improvviso in noi in un flusso di consapevolezza.
Prime
attestazioni
La
più antica attestazione dei druidi che non sia andata perduta ci è
fornita da Giulio Cesare nel sesto libro del De bello gallico,
scritto intorno al 52 a.C. Successivamente troviamo che parlano
dei druidi numerosi autori classici tra cui, Cicerone, Strabone,
Diodoro Siculo, Lucano, Plinio e Tacito , fino al 385 d.C., quando
Ausonio scrisse per i professori di Bordeaux una raccolta di odi,
tra le quali vi è la storia di un vecchio di nome Febicio, della
stirpe bretone dei druidi, che riuscì a ottenere una cattedra a
Bordeaux grazie all'intervento di suo figlio. L'opera degli autori
classici getta un po' di luce anche se in modo incompleto su ciò
che facevano e in cui credevano i druidi.
Ma
le maggiori fonti di informazione scritte che si possiedono sui
druidi vengono dall'Irlanda, dal Galles e dalla Scozia, anche se
esse sono cronologicamente molto più tarde delle fonti classiche,
e quindi presentano già di per sé problemi particolari al momento
di interpretarle. I testi irlandesi partono dall' VIII secolo d.C.,
quelli gallesi vennero nel complesso messi per iscritto solo in
epoca medievale, e i materiali scozzesi rimasero allo stadio di
tradizioni orali fin verso la fine del XIX secolo, quando gli
studiosi di tradizioni popolari cominciarono a registrare per
iscritto i tesori che essi contenevano.
I
testi irlandesi sono considerati "un frammento straordinariamente
arcaico di letteratura europea", che rispecchiano "un
mondo più antico di quello di qualunque altra letteratura popolare
dell'Europa occidentale". Essi comprendono perlopiù racconti
di eroi e compendi di codici di leggi, e ancorché trascritti da
ecclesiastici cristiani, si può osservare come essi riproducano un
quadro affidabile di quel mondo druidico precristiano d'Irlanda
che esisteva prima dell'introduzione del cristianesimo nel V secolo
d.C..
I
testi gallesi, come quelli irlandesi, sono la versione scritta di
materiali originariamente tramandati per via orale. Messo per
iscritto molto più tardi dei componimenti irlandesi, il Corpas di
testi gallesi comprende il Libro Bianco di Rhydderc1z (Gwvn Rhydderc),
la cui stesura risale al XIV secolo circa e il Libro Rosso di
Hergest (Llyfr Coch Hergest) del XV secolo circa. È dal Libro Rosso
che sono tratte le ben note fiabe del Mabinogion, e una parte delle
fiabe di questa raccolta si trovano anche nel Libro Bianco: il che
prova che esse vennero messe per iscritto per la prima volta tra il
1100 e il 1250. Un altro importante manoscritto gallese, che
racchiude molte delle nostre conoscenze attuali sulla sapienza
druidica, è il Libro di Taliesin (Hanes Taliesin). Esso risale a
un'epoca ancora più recente, essendo la copia, redatta nel XVII
secolo, di un manoscritto del XVI. Un'ulteriore fonte di conoscenze
sui druidi e sulla loro opera ci può venire dalle Trindi Callesi,
che sono il risultato dell'unione di molte fonti manoscritte. Esse
ci permettono di vedere da vicino qual era il complesso percorso
dell'addestramento dei bardi, e dalla loro forma nitida possiamo
intravedere la profondità del pensiero bardico e druidico.
Il
materiale scozzese, si potrebbe pensare, non dovrebbe avere una
grande affidabilità come fonte di informazione sui druidi, dal
momento che è stato messo per iscritto solo nel XIX e nel XX
secolo. Tuttavia, questo materiale, che comprende la cospicua
raccolta fatta da Alexander Carmichael e pubblicata in sei volumi
tra il 1900 e il 1961 con il titolo Carmina Gadelica, non fa che
convalidare la visione del nostro retaggio precristiano quale era
stata ricavata dalle fonti precedenti, classiche, irlandesi e
gallesi. Esso rappresenta anche la testimonianza vivente della
capacità straordinaria che le tradizioni culturali e spirituali
hanno di sopravvivere per migliaia di anni venendo semplicemente
trasmesse da bocca a orecchio. È vero che tutte queste fonti di
informazione di cui disponiamo sono state influenzate, con il passar
del tempo, dal cristianesimo e da influssi continentali, quando i
bardi gallesi e cornovagliesi fuggirono in Bretagna al momento
delle invasioni sassoni, ritornando con canzoni e storie modificate.
Ma nonostante questi influssi, la forma e la sostanza originarie
precristiane di questi materiali è chiaramente individuabile, e si
può affermare che il corpus di materiale di cui si dispone per
comprendere il druidismo è veramente enorme. A tutt'oggi i tesori
che esso racchiude non sono ancora stati pienamente indagati e
valorizzati.
Dati
archeologici
Le
nostre conoscenze riguardo ai druidi possono essere incrementate,
ancorché non di molto, attraverso lo studio di iscrizioni,
incisioni e sculture. Il materiale epigrafico disponibile consiste
in circa 360 iscrizioni ogamiche, ritrovate principalmente su pietre
tombali nel Sudovest dell'Irlanda e in Galles, che risalgono al V e
VI secolo d.C., e in circa 374 iscrizioni, ritrovate soprattutto
in Gallia, con dediche a dei o dee, anche se esse risalgono quasi
esclusivamente all'epoca in cui la Gran Bretagna e la Gallia
appartenevano all'Impero romano. Il materiale iconografico è
costituito da sculture e incisioni, sia in legno sia in pietra,
raffiguranti persone e animali e risalenti al VI secolo a.C. Questi
due tipi di testimonianze, quella epigrafica e quella iconografica,
diventano illuminanti se poste nel contesto che ci è fornito dai
dati testuali corroborati dalle scoperte nel campo
dell'archeologia,
degli
studi linguistici e della mitologia comparata. Passando a
considerare queste testimonianze, ci addentriamo in un campo di
studio ricco ed entusiasmante, che nell'ultimo ventennio ci ha
consentito di formarci un quadro del druidismo che fa pensare a
una continuità di tradizione che dall'era neolitica si è
protratta per tutto il periodo celtico.
Comunità
agricole neolitiche risalenti al 4500 a.C. sono state individuate
nel Sud della Gran Bretagna e in Irlanda, e a nord, fino alle
Orcadi, al 3500 a.C. Furono queste comunità "dell'età della
pietra" che costruirono i monumenti megalitici ed eressero i
loro numerosi monumenti di pietra nel corso di circa
duemilacinquecento anni, tra il 3500 e il 1000 a.C.
Quanti
tra noi si erano fatti l'idea che questi nostri antenati neolitici
fossero dei "rozzi selvaggi" sono stati costretti a
rivedere radicalmente il loro modo di pensare alla luce delle
scoperte, di cui fu pioniere, Sir Norman Lockyer agli albori del XX
secolo, ma che hanno avuto un pieno sviluppo solo negli ultimi
vent'anni grazie alla minuziosa opera di analisi computerizzata
dei professori Thom, Hawkins e Atkinson. Quest'opera ha dimostrato
che i circoli di pietre e altri monumenti della popolazione
neolitica furono eretti servendosi di conoscenze matematiche
sorprendentemente sofisticate, il che dimostra che i nostri antenati
illuminati possedevano una conoscenza "pitagorica" della
matematica più di mille anni prima della nascita di Pitagora.
Resti
megalitici sotto forma di tumuli sepolcrali, pietre erette e circoli
di pietre sono stati ritrovati in ogni parte del mondo: in Tibet,
Cina, Corea e Giappone, nelle isole del Pacifico, Malesia e Borneo,
in Madagascar, India, Pakistan ed Etiopia, nel Medio e nel Vicino
Oriente, in Africa e nelle Americhe.
Quello
che è certo, comunque, è che i monumenti megalitici dell'Europa
occidentale sono tra i più antichi del mondo. La datazione con il
carbonio 14 situa la maggior parte di essi tra il V e il II
millennio a.C. E dal momento che essi sono più antichi dei
monumenti trovati in Africa o in Asia, nel Vicino o nel Medio
Oriente, non possono essersi "propagati" a partire dal
Sud o dall'Est.
Chi
erano i Celti?
Le
origini dei Celti sono altrettanto difficili da determinare e
provocano tante discordie accademiche quanto le origini dei
druidi. La conclusione di molti storici è che termine "Celti"
non sia il nome proprio di una popolazione ... ma sia stato
attribuito dai geografi classici a una grande varietà di tribù
barbare, anche se non si nega che sia esistito un gruppo linguistico
che a partire dal XIX secolo è stato chiamato "celtico",
né che sia possibile effettuare significative osservazioni archeologiche
riguardo alla cultura materiale e al modo di vita nei singoli
momenti e luoghi. Ma queste percezioni diverse e legittime non
andrebbero confuse mescolandole tutte in uno stesso insieme
etichettato come "celtico".
Consapevoli
di queste premesse, probabilmente gli antenati dei Celti erano i
popoli della cultura dei Vasi Campaniformi (Beaker-folk), originari
dell'Europa centrale o dell'Iberia nel III millennio a.C., e quelli
della cultura delle Asce da Combattimento che quasi certamente migrarono
dalle steppe della Russia meridionale più o meno nello stesso
periodo. La fusione di queste popolazioni nelI'Europa centrale
intorno al II millennio a.C. diede origine alle culture successive
note come culture di Unjetice, dei Tumuli e dei Campi di Urne.
Alcuni studiosi sostengono che sul finire del II millennio a.C. la
cultura dei Campi di Urne può essere considerata "protoceltica".
A partire dal 700 a.C. circa, la cultura di alcuni dei discendenti
dei popoli dei Campi di Urne è stata denominata cultura di
Hallstatt, che può essere considerata con una certa sicurezza
celtica in opposizione a quella protoceltica. La cultura di
Hallstatt può essere seguita solo per 200 anni, dopodiché essa
lasciò il posto alla cultura di "La Tène" che si
protrasse fino all'arrivo dei Romani.
Ma
se consideriamo antenati dei Celti anche i popoli delle culture dei
Vasi Campaniformi e delle Asce da Combattimento, e li chiamiamo,
come fanno alcuni studiosi, "proto-Celti", allora possiamo
far risalire l'arrivo dei proto-Celti in Gran Bretagna già intorno
al 2000 a.C., dal momento che fin da tale epoca sono stati
identificati siti di cultura dei Vasi Campaniformi nelle Isole
Britanniche.
Il
professor Renfrew si schiera contro questa teoria, sostenendo che,
anche se essa viene preferita dagli archeologi del continente, la
maggior parte degli archeologi (britannici) oggi non pensa in
termini di immigrazione, in qualsivoglia misura, di portatori di
vasi campaniformi. Al contrario Renfrew, in un'opera recente che
descrive gli studi di linguistica storica, preferisce una teoria
sulle origini indoeuropee che era già in voga nel XIX secolo ma
che ora egli ripresenta con le opportune modifiche e messe a
punto. Le sue argomentazioni sono complesse e raffinate, e
andrebbero studiate sull'originale. Ma sono convincenti. Egli non si
rifà a un modello migrazionista, pur avanzando l'ipotesi che,
grosso modo prima del 6000 a.C., nella parte orientale dell'Anatolia
si trovassero popolazioni parlanti lingue progenitrici di tutte le
lingue indoeuropee, e che intorno al 4000 a.C. i più antichi
parlanti lingue indoeuropee avrebbero raggiunto l'Europa e forse
anche la Gran Bretagna.
I
Celti vengono considerati discendenti da questi Indoeuropei. A
partire dal 6000 a.C. essi si erano diffusi dalla loro sede
originaria sia in direzione est sia in direzione ovest, raggiungendo
a Occidente la Gran Bretagna e l'Irlanda, e a Oriente l'India. Gli
studi di mitologia comparata hanno evidenziato che la letteratura
sanscrita ci tramanda antichi riti indiani assai simili a quelli che
si ritrovano nell'Irlanda celtica, e che si possono istituire
impressionanti paralleli tra alcune divinità indù e gli dei
celtici.
Gli
storici erano soliti sostenere che i Celti erano giunti nelle Isole
Britanniche a ondate successive a partire dal 500 a.C. circa, e che
quindi i druidi, essendo Celti, non potevano avere costruito i
circoli di pietre. Gli appassionati di antichità della rinascita
druidica del XVIII secolo e i moderni Ordini druidici che
sostenevano che i druidi praticavano il loro culto in località
come Stonehenge venivano scherniti dagli accademici convinti che
invece gli ultimi circoli di pietre costruiti fossero anteriori di
oltre cinquecento anni all'arrivo dei Celti. Tuttavia, i dati che
sono oggi in nostro possesso mostrano che i druidi della rinascita e
quelli moderni avevano ragione riguardo ai loro predecessori, sia
che si pensi alla comparsa in Gran Bretagna dei proto-Celti intorno
al 2000 a.C., con la cultura dei Vasi Campaniformi, sia che si
pensi a un loro arrivo in epoche ancora anteriori, con gli
Indocuropci, come ipotizza Colin Renfrew.
Ma
approfondire l'argomento oltre l'analisi storica delle origini del
druidismo è impresa che va al di là di ogni limite, poichè ogni
aspetto della sua storia più antica dà adito a controversie.
Quanto
tempo occorreva per diventare Druido
Non
possiamo essere certi del tempo esatto occorrente, ma Cesare accenna
al fatto che occorrevano vent'anni per diventare Druidi, ma poteva
anche trattarsi di una cifra convenzionale, per indicare semplicemente
un lungo periodo di tempo, e che in realtà dovevano occorrere
diciannove anni, dal momento che i druidi quasi sicuramente facevano
riferimento al Ciclo di Meton, un sistema di computo del tempo
basato sul ciclo lunare di diciannove anni. Sembra comunque che,
qualunque fosse la lunghezza complessiva dell'addestramento, essa
dovesse comprendere anche il periodo impiegato per raggiungere i
gradi anteriori di bardo e ovate.
Se
il bardo era il poeta, il conservatore della tradizione e
l'intrattenitore, mentre l'ovate era il medico, il detective,
l'indovino e il veggente, che cos'era il druido? Per riassumere le
sue funzioni, si può dire che fungeva da consigliere di re e
governanti, da giudice, da maestro e da autorità in fatto di culto
e cerimonie. Il quadro che ne risulta è quello di una saggezza
matura, di una posizione ufficiale privilegiata, e di un ruolo che
comporta prendere decisioni, dirigere e impartire conoscenza.
Tendiamo a pensare al druido come a una specie di sacerdote, ma
questo non è provato dal materiale disponibile. I testi classici
non li descrivono mai come sacerdoti, bensì come filosofi. A prima
vista questo sembra originare qualche confusione, dal momento che
sappiamo che essi presiedevano cerimonie, ma se ci rendiamo conto
che il druidismo era una religione naturale, terrestre o solare,
in contrapposizione a una religione rivelata, come il
cristianesimo o l'islamismo, possiamo concludere che essi non
fungevano da mediatori tra Dio e l'uomo, bensì da registi dei
rituali, da sciamani che guidano e controllano i riti.
I
Druidi in quanto giudici
"I
druidi sono considerati i più giusti tra gli uomini e pertanto a
loro viene affidato il compito di giudicare le controversie
private e pubbliche. Un tempo dovevano anche fungere da giudici
arbitrali in caso di guerra e avevano la facoltà di fermare i
combattenti nell'attimo in cui costoro si accingevano ad
allinearsi per la battaglia, ma, soprattutto, si demandava loro il
giudizio nei processi per omicidio". - Strabone, Geographia -
"Sono
chiamati a decidere in quasi tutte le controversie pubbliche e
private e se viene commesso qualche delitto, se awiene qualche
uccisione, se sorge una lite per un'eredità o per la
delimitazione di terreni, sono i druidi a decidere e a stabilire i
risarcimenti e le pene. E se qualcuno, sia che si tratti di un
cittadino privato o di un intero popolo, non si attiene al loro
giudizio, lo bandiscono dalle funzioni del culto, il che è la pena
più grave, presso i Galli".
-
Cesare, De belto gallico -
È
sempre stato tramandato all'interno dell'Ordine che i druidi non
fossero responsabili dei sacrifici umani menzionati dagli autori
classici. Se prendiamo in considerazione i racconti sui famosi
uomini di vimini (gigantesche sagome di legno in forma umana al cui
interno criminali e altri sarebbero stati dati alle fiamme) vedremo
che uno studio accurato di quanto ci dicono gli autori classici permetterà
di stabilire se siano o meno affermazioni basate su fatti reali.
Nel
brano di Cesare sopra citato, egli osserva che la pena più severa
comminata dai druidi era l'ostracismo. In una società altamente
strutturata, la posizione, l'immagine, la condizione e la
reputazione erano di vitale importanza per l'individuo. In molte
società perdere la faccia era, e ancor oggi è, la punizione più
temibile. La ferita inferta dall' ostracismo era una ferita
dell'anima, non del corpo. Penetrava nel cuore stesso di quello
che ciascuno riteneva di essere al mondo. Cesare non afferma che la
punizione più grave per i druidi fosse l'essere sacrificati o
bruciati vivi, asserisce invece che la loro punizione più severa
consisteva nell'escludere la persona trovata colpevole dalla partecipazione
ai sacrifici (in altre parole, le cerimonie religiose, che
probabilmente comportavano sacrifici di animali). Quando si era
banditi dalla partecipazione all'attività spirituale e sociale
centrale per la tribù, la punizione era veramente severa, si era
dei reietti, e probabilmente si diventava anche capri espiatori, per
non parlare dell'intima tortura del proprio io, della vergogna e
della derisione della tribù. Un simile ostracismo era una punizione
spaventosa, inconcepibile per il modo di pensare individualista
di oggigiorno.
Lo
spiega Cesare: "Quelli che sono a questo modo banditi sono
considerati empi e scellerati; tutti si allontanano da loro, evitano
di incontrarli e di parlare con essi, per non essere contaminati
dal loro contatto".
L'Irlanda
non venne mai conquistata dai Romani ma anche in questo paese
troviamo ulteriore materiale a sostegno dell'idea che la punizione
più severa dei druidi fosse l'ostracismo, se studiamo le antiche
leggi d' Irlanda, che risalgono direttamente alla legge druidica. La
punizione più pesante era il bando: per esempio, coloro che
avevano commesso incesto od omicidio venivano gettati in mare in una
rudimentale imbarcazione di vimini con null'altro che un coltello
per potere badare a se stessi. Se ne uscivano vivi, avevano salva la
vita: avevano affrontato il giudizio degli elementi e il tormento di
essere dei reietti e avevano rischiato la morte, in tal modo si
consideravano sufficientemente purificati. Certo, essi dovevano
conoscere molto bene le maree, perché nessuno doveva augurarsi di
vedere un assassino rigettato sulla spiaggia nel giro di un'ora e
con un coltello in mano. I cinici direbbero che si trattava di un
semplice scaricabarile, con ogni comunità che sospingeva i propri
criminali verso quella più vicina in direzione della corrente. Chi
conosce il mare e i suoi pericoli saprà che molti dovevano
senz'altro perire se messi in acqua in determinati luoghi e in
determinati momenti.
Se
la punizione più severa comminata dai druidi era il bando o
l'esilio, sia in senso letterale, con il colpevole gettato in mare,
sia in senso sociale e psicologico come nel caso di chi era bandito
dagli atti di culto, perché troviamo i druidi associati a sacrifici
umani? Torniamo a leggere Cesare e il suo De bello gallico:
"I
Galli sono molto dediti alle pratiche religiose, perciò quelli che
sono gravemente ammalati o si trovano in guerra o in pericolo,
fanno sacrifici umani o fanno voto di immolarne e si servono dei
druidi come ministri di questi sacrifici ... certe popolazioni
costruiscono statue enormi, fatte di vimini intrecciati, che
riempiono di uomini vivi e incendiano, facendoli morire tra le
fiamme."
In
entrambi i casi sono i Galli, e non i druidi che immolano o fanno
voto di immolare. Nella frase in cui si parla delle statue di vimini
non si parla affatto dei druidi. Nella frase precedente si sostiene
che i Galli impiegavano i druidi come ministri di questi sacrifici.
Fino all'abolizione della pena di morte, in Gran Bretagna si sono
impiegati sacerdoti cristiani come ministri quando i condannati
venivano impiccati. Ed ancor oggi vediamo le forze armate
impiegare ministri del culto cristiani quando si ingaggia una
battaglia e a migliaia i soldati vengono sacrificati al Dio della
Guerra. I druidi erano i saggi della società barbarica dei Celti, e
la religione dei Celti era anche la loro religione, con tutti i
suoi lati crudeli.
I
Druidi in quanto maestri
«Presso
di loro si raccoglie per istruirsi un gran numero di giovani ed essi
sono tenuti in grande onore... Attirati da cosi grandi privilegi
(l'esenzione dal servizio militare e dalla tassazione di guerra)
molti giovani di loro volontà si recano da loro per esserne
discepoli e molti sono mandati dai genitori e dai parenti. Da loro,
a quanto pare, debbono imparare a memoria un gran numero di versi;
per molti il tempo del noviziato dura vent'anni. Non ritengono
lecito scrivere i loro sacri precetti; invece per gli altri affari,
sia pubblici sia privati, usano l'alfabeto greco."
Cesare,
De bello gallico
A
giudicare tanto dalle fonti classiche che da quelle irlandesi,
appare chiaro che una delle principali funzioni del druido era
quella di maestro. Ciò comprendeva l'insegnamento sia a un
livello esoterico sia a un livello essoterico. Per aiutarci a farci
un'immagine di come doveva vivere e operare un druido, Caitlín
Matthews propone l'immagine del rabbino ebreo. Egli, o essa, era «un
uomo o una donna sapiente il cui consiglio era ricercato per tutte
le questioni della vita di ogni giorno, qualcuno che magari esercitava
un'arte, che era sposato e aveva una famiglia, che radunava la gente
per le celebrazioni comunitarie e la cui parola era legge. Proprio
come i rabbini hassidici che praticavano la Kabbalah ed erano
conosciuti come veggenti e operatori di miracoli, anche i druidi
erano persone dalle capacità eccezionali. Dai vari resoconti
celtici troviamo che un druido aveva di solito uno o più studenti
addetti al suo seguito o alla sua casa. Allo stesso modo, per
tornare al nostro parallelo ebraico, un rabbino gestiva spesso una
scuola talmudica per un numero di allievi che poteva essere sia di
poche unità sia piuttosto elevato. Analogamente gli allievi
druidi imparavano dai loro maestri».
Mentre
alcuni druidi potevano avere anche solo due o tre discepoli che
vivevano con loro, in cambio, presumibilmente, di un aiuto nella
gestione della casa, altri riunivano intorno a sé un numero di
allievi sufficiente per costituire un vero e proprio collegio
druidico. Nell'Ulster, per esempio, si tramanda che Cathbad, un
druido del re Conchobar, era circondato da un centinaio di
discepoli.
Che
cosa dovevano imparare? Proprio come, in epoche successive, gli
ordini monastici divennero centri di cultura, si facevano carico
di tutta la gamma dell'istruzione, dall'insegnamento della cultura
generale a quello della filosofia, dall'insegnamento del diritto a
quello della magia, dall'insegnamento delle arti di guaritore
all'insegnamento dell'ordine esatto delle cerimonie. Sappiamo anche
che i druidi fungevano da tutori dei figli dei re e dei nobili, e
che gli allievi venivano mandati da un maestro druido a un altro
per apprendere le diverse arti. Uno degli argomenti a sostegno
dell'ipotesi che il druidismo abbia avuto origine in Gran Bretagna
con la fusione della tradizione celtica e del clero preesistente
della cultura megalitica sta nel fatto che gli allievi venivano
mandati dalla Gallia in Gran Bretagna per essere addestrati nel
druidismo. Essi venivano inviati all'autentica sorgente della
cultura druidica, per immergersi in tale fonte. Cesare fornisce un
sostegno a questo modo di vedere quando afferma: "È opinione
comune che l'organizzazione dei druidi sia originaria della
Britannia e di li sia passata in Gallia e ora chi vuole
approfondirne lo studio, si reca perlopiù in tale isola, allo scopo
di apprendere".
È
allettante pensare che il sistema educativo anglosassone, come
pure il sistema inquirente e giudiziario, abbiano le loro radici
nel druidismo. Un giorno probabilmente vedremo la statua di un
druido eretta fuori dalla sede di Scotland Yard o dal tribunale
sullo Strand, oppure un murale nell'anticamera del ministero della
Pubblica istruzione con la raffigurazione di un druido che sta
insegnando all'interno di un Bosco sacro.
I
Druidi in quanto re e consiglieri dei Re.
È
provato che alcuni re furono anche druidi. Il druido Ailill
Aulomon fu re del Munster nel I secolo d.C., e si tramanda che tre
re druidi regnavano sull' "isola di Thule". Thule era il
nome con cui spesso ci si riferiva all'Islanda, e abbiamo così la
suggestiva possibilità che l'Islanda fosse un tempo un regno retto
da druidi, molto prima della conquista vichinga. La storia ufficiale
dell'Islanda afferma che i primi coloni normanni, quando vi posero
piede nell'874 d.C., vi trovarono e portarono via con sé alcuni
isolati eremiti irlandesi, che vi erano arrivati passando per le
isole FaerOer. Ma una recente indagine sui gruppi sanguigni
islandesi mostra che essi hanno una maggior somiglianza con quelli
dell'Irlanda che con quelli della Scandinavia. Questo ci porta a
concordare con quegli storici che sostengono che l'Islanda fosse
di fatto già stata colonizzata dai Celti assai prima che
arrivassero i Vichinghi. Questa rivendicazione si rafforza quando
osserviamo che l'unica fonte di informazione manoscritta in nostro
possesso riguardo alla cosmologia pagana nordica, l' Edda, fu
scritta in Islanda e non in Scandinavia. Il manoscritto presenta
notevoli somiglianze con gli antichi manoscritti irlandesi dello
stesso periodo, ed è forte la tentazione di immaginarsi i Vichinghi
d'Islanda assistiti nel registrare la loro cosmologia da druidi
irlandesi o da loro discendenti..
›
Copyright
Myrddin | Pubblicato il 15/07/2004
La
Storia e i Druidi
Vi
è una interessante e profonda differenza tra la religione celtica e
quella dei germani, degli scandinavi, dei greco latini e con le
religioni preesistenti l'arrivo del druidismo in Europa, di cui
purtroppo abbiamo scarse informazioni.
Questa
differenza consiste nel fatto che nonostante non si possa parlare
dei celti come di un solo popolo omogeneo, unito ed organizzato, la
loro religione era di gran lunga la più strutturata e gerarchizzata
del mondo occidentale di allora, coincidendo in molti punti con
quella dei bramini dell'India.
Stiamo
ovviamente parlando del druidismo e dei suoi sacerdoti, i Druidi, il
cui nome non deriva come alcuni studiosi in passato avrebbero
supposto dal termine dorowid (drwid), che significa
"Quercia", ma proviene dalla radice foneticamente assai
simile dervo (drv), che invece significa
"sapiente", già più in linea con ciò che questi
sacerdoti e filosofi erano veramente. Ciò nonostante
l'interpretazione del reale significato di questo termine è ancora
molto discussa, anche se infine è molto probabile che esso contenga
entrambe i significati di "Sapiente", dal suffisso wid
sul quale sono in accordo tutti gli studiosi, e "Quercia"
dal prefisso dru. Quindi il significato reale sarebbe
"Conoscitore della Quercia" o anche "Conoscitore
dell'Albero", dove per Albero si può anche intendere l'albero
cosmogonico, comune anche ad altre culture europee.
Resta
comunque abbastanza limitante pensare ai Druidi semplicemente come
ai sacerdoti dei celti, essendo le loro funzioni ben più estese di
quelle di un prete moderno o di un prete come lo si poteva intendere
presso gli egiziani o i latini, senza dimenticare che in alcun testo
a loro contemporaneo che trattasse dei Druidi e del Druidismo è
specificato che il loro esclusivo compito fosse quello
dell'amministrazione della religione. Per ironia del caso, se presso
il grande pubblico la figura del Druido assume quasi esclusivamente
l'aspetto di mago e sacerdote, accademicamente accade proprio il
contrario e non è raro vederli considerare solo come dei filosofi.
Alla
luce della documentazione storica e delle recenti ricerche
archeologiche dobbiamo invece considerare i Druidi come i componenti
di una casta che rifletteva esattamente la concezione celtica del
cosmo. In una società in cui non esisteva distinzione tra sacro e
profano, poiché nulla era profano, ecco che i sacerdoti di questa
religione erano anche i depositari della cultura, delle tradizioni e
delle conoscenze tutte, oltre che, ed ecco l'originalità del
druidismo, uomini profondamente attivi nella società, spesso come
guerrieri e principi. Come dimenticare d'altronde Diviziaco che
abbigliato come un guerriero e con la caratteristica mantellina
bianca dei Druidi, ritto di fronte al senato Romano ed appoggiandosi
al suo scudo, perorava la causa degli Edui e degli altri popoli
celtici contro l'invasione dei popoli germanici.
E'
interessante notare come anche Cesare li indichi nei suoi scritti
sempre con il termine Druides e solo in un paio di occasioni
con il corrispettivo latino di sacerdote, sacerdos,
evidentemente troppo limitante anche ai suoi occhi.
Ed
è ancora interessante notare che la massima importanza del ruolo di
questi personaggi all'interno della società celtica sia rilevabile
anche tramite i colori ad essi attribuiti. Infatti nella letteratura
di questi popoli ad ogni casta è attribuito un colore diverso: blu,
verde e giallo per la classe produttrice, alla base dell'economia
celtica, rosso per la classe guerriera, ma utilizzato anche per
indicare la "conoscenza" (in Irlanda il Dagda, dio
supremo, è detto Ruadh Rohfessa "il Rosso della Scienza
Perfetta") ed infine il bianco che viene esclusivamente
riservato ai Druidi e che in tutte le lingue celtiche (dalla radice vindo-s
diviene find in irlandese, gwin in gallese, gwen
in bretone) significa anche "bello, sacro". A questo
proposito è da segnalare l'errore che il neo-druidismo commise
nell'attribuire il blu ai bardes, i vati, e il verde ai vates,
gli indovini, tant'è che in tutte le lingue celtiche non esiste
differenza tra i termini "blu" e "verde" che
vengono puntualmente riassunti nel termine glas, che
significa appunto, blu, verde e grigio.
La
comparazione e l'incrocio delle fonti storiche e mitologiche ci
permette oggi di distinguere le diverse specializzazioni esistenti
nella casta sacerdotale celtica:
·
Filidh:
Si occupava
delle profezie, e dei riti divinatori in genere.
·
Atheberth:
Si occupa dei sacrifici e della divinazione ad essi connessa.
·
Liaigh:
E' un guaritore, specializzato nell'applicazione delle tre medicine:
magica, chirurgica e vegetale.
·
Brithem:
Si occupa della trasmissione e dell'applicazione della legge.
·
Scelaige:
Il "Contatore", esperto in matematica e nella valutazione
del numero delle armate nemiche, dell'estensione della terra, nella
conta degli alberi, dei frutti, nella stima dei capi di bestiame e
delle messi... leggende raccontano che questi druidi fossero in
grado di dare una stima abbastanza precisa con un solo colpo
d'occhio.
·
Gutuater:
L'Esortatore, l'Invocatore, che guidava i riti invocando la presenza
e l'ascolto dell'Annwyn.
Alla
luce quindi dell'esatta collocazione di questi personaggi
nell'ambito della società celtica si può affermare con una certa
sicurezza che i Druidi ed il druidismo non potevano che esistere
all'interno di questi ambiti, ovvero all'interno di una cultura
indipendente basata fondamentalmente sull'aspetto sacrale della
realtà, con una lingua specifica ed originale ed infine non
subordinata o convertita ad altre religioni. E' quindi evidente che
tutti gli attuali sforzi portati avanti da sedicenti movimenti che
vantano un qualche collegamento diretto con questa antica casta
devono considerarsi assolutamente privi di fondamento, benché sia
fortemente probabile che sparuti elementi dell'antico sapere
iniziatico dei Druidi, o forse anche a loro precedente, si siano
conservati e tramandati fino ai nostri giorni, adattandosi in parte
ai tempi, rivestendosi di nuovi aspetti o più spesso nascondendosi
tra i rari e discreti perpetuatori di quelle antiche tradizioni.
Saggi,
sciamani e guerrieri forse ancora esistenti in qualche luogo
dell'Europa nord-atlantica e qualcuno dei quali potrebbe essere
anche molto più vicino a noi di quanto non si pensi.Autore Kal
di Bibrax | Pubblicato il 01/01/2002
Le
Triadi Bardiche
1.
Tre sono le cose che il viandante non può controllare: il Tempo, lo
Spazio e la Verità.
2.
Tre sono le cose che mantengono l'ordine e sistema per ciascuna cosa
nel mondo : Numero, Peso e Misura.
3.
Tre sono le cose che dovrebbero venire considerate prima di tutte:
Natura, Forma e Lavoro.
4.
Tre sono le cose che distruggono ovunque viaggiano: Acqua, Fuoco e
la maledizione degli Dei.
5.
Tre sono le cose senza eguali nel mondo: Bellezza, Amore e Necessità.
6.
Tre sono le cose che un viandante non può cancellare: Grande Amore,
Grande Odio e Grande Abbondanza 7. Tre sono le cose con si fermano
mai in un viandante: il cuore nel lavorare, il respiro nel muovere,
e l'animo nel proporre 8. Tre sono le cose difficili da vincere per
un Viandante: il suo genio, il suo credo e la sua nazione.
9.
Tre sono le cose su cui ciascun viandante dovrebbe riflettere: da
dove viene, dove si trova, e dove andrà 10. Tre sono le cose
difficili da realizzare completamente per un viandante: conoscere se
stesso, vincere il suo appetito, e mantenere il suo segreto.
11.
Tre sono le cose di cui "tutto" non è bene: fare tutto ciò
che la passione desidera, credere a tutto ciò che si dice sulla
terra, e mostrare tutto ciò che si conosce.
12.
Tre sono i martiri senza uccisione: la generosità di un viandante
bisognoso, la castità di un giovane viandante, e un alto tenore di
vita senza ricchezza.
13.
Tre sono le cose la cui perdita genera sventura: il raggiungimento
della conoscenza, una coscienza pura, a l'amore degli Dei.
14.
Tre sono le cose che abbagliano il mondo: disonestà, supremazia, e
l'eccessivo amore per uomini e donne.
15.
Tre sono i consigli dell'uccello giallo:non addolorarsi troppo di ciò
che è accaduto, non credere in ciò che non può essere e non
desiderare ciò che non puoi ottenere.
16.
Tre sono le cose che arrivano al Viandante senza che se ne renda
conto: sonno, peccato e vecchiaia.
17.
Tre sono le cose essenziali per compiere ogni atto: conoscenza,
abilità e desiderio.
18.
Tre sono le fonti della conoscenza: ragione, fenomeno e necessità.
19.
tre sono gli insegnanti di un Viandante: la prima gli eventi, che
derivano da ciò che si vede e si sente, la seconda l'intelligenza,
che viene dalla riflessione e dalla meditazione; e la terza il
genio, individuale, dal dono degli Dei.
20.
Tre sono le istruzioni a cui non è saggio credere: ciò che un
Viandante insegna a favore di ciò che è per il proprio profitto e
successo; ciò che insegna con odio ad una altro; e ciò che un
Viandante saggio ai suoi stessi occhi insegna 21. Tre sono le cose
senza le quali nulla può essere: il potere del grande Spirito, il
Dio e la Dea, l'amore degli Dei, e la saggezza degli Dei.
22.
Tre sono le cose che nessuno oltre agli Dei può sapere: l'inizio di
tutto, la causa di tutto, e la fine di tutto.
23.
Tre sono le cose che nessuno oltre agli Dei può fare: creare ciò
che non è mai esistito prima, sapere ciò che avverrà, e giudicare
oltre coscienza.
24.
Tre sono le cose che è meglio lasciare agli Dei: giudicare,
premiare e retribuire; poiché non c'è nessuno oltre a Loro che sa
cosa delle tre è dovuta ad un altro.
25.
Tre sono le cose che fanno rimanere vicini agli Dei: la comprensione
intuitiva, un lungo e sofferto amore, la conoscenza contemplativa.
26.
Tre sono i doni degli Dei: immaginazione, intelligenza, e carità.
27.
Tre sono le cose che avvicinano il Viandante agli Dei: pazienza,
amore e coscienza.
28.
Tre sono le cose che spingono a pregare gli Dei: una lunga malattia,
una lunga avversità, ed un lungo dolore.
29.
Tre sono le cose che gli Dei non perdonano ad un Viandante:
diffamare gli Dei, non credere agli Dei, e disperare degli Dei.
30.
Tre sono le punizioni: la punizione della legge della terra, la
punizione della coscienza, e la punizione degli Dei.
31.
Tre sono le cose che muovono insieme alla stessa velocità l'una con
l'altra: illuminazione, pensiero, e l'aiuto degli Dei.
32.
Tre sono le cose a cui non si può mai dare una giusta ricompensa: i
genitori, i buoni maestri e gli Dei.
33.
Tre sono le cose che teniamo in troppa considerazione e che portano
via il nostro orgoglio: il nostro denaro, il nostro tempo e la
nostra Coscienza.
34.
Tre sono le cose che si assomigliano: una spada luminosa arrugginita
dal troppo tempo tenuta dentro il suo fodero, l'acqua limpida che
puzza per il troppo tempo, e la saggezza morta per il lungo disuso.
35.
Tre sono quelli fanno piacere agli Dei: coloro che amano ogni essere
vivente con tutto il cuore, coloro che amano ogni cosa bella con
tutta la loro forza, coloro che ricercano la conoscenza con tutta la
loro comprensione.
36.
Tre sono le cose di cui ogni cosa è capace, e senza le quali nulla
può essere: la forza del corpo e della mente, la conoscenza, e
l'amore per la saggezza intuitiva.
37.
Tre sono le cose che non possono essere opposte: la natura, la
necessità e la decadenza.
38.
Tre sono le genti difficili da credere: un vagabondo che viene da
lontano, un lettore di libri in lingua straniera, e colui che è più
vecchio dei suoi vicini 39. Tre sono i tipi di persone a cui non è
saggio credere: lo straniero riguardo i suoi beni, un Viandante
anziano che predica del tempo antico, e un viandante che millanta la
sua saggezza.
40.
Tre sono le armonie che tengono insieme tutte le cose: L'armonia
dell'amore e giustizia, l'armonia della verità e l'immaginazione, e
l'armonia degli Dei e la necessità.
41.
Tre sono i consigli di Gwydion: conoscere il potere, conoscere la
propria saggezza e conoscere il proprio tempo.
42.
Tre sono i vanti di uno stolto: ricchezza, discendenza, e
dissolutezza.
43.
Tre sono le scuole del Viandante saggio: coscienza, ragione e
istruzione.
44.
Tre sono le cose essenziali per il saggio da conoscere: gli Dei, se
stessi, e l'inganno del mondo.
45.
Tre sono le cose che il saggio ottiene: prosperità, dignità e
gioia.
46.
Tre sono i trionfi del saggio: dignità, intuizione e l'elogio.
47.
Tre sono le cose di cui un saggio si può elogiare: la propria
comprensione, il proprio lavoro artigianale, e la propria virtù.
48.
Tre sono le piaghe di un saggio: il sesso, il bere, ed un cattivo
temperamento.
50.
Tre sono le cose che capitano a chi non è saggio: fallimento,
disgrazia e dolore.
51.
Tre sono le iniziazioni alla saggezza: l'insegnamento legittimo,
comportamenti effettivi, amore istintivo.
52.
Tre sono le operazioni sagge: addomesticare la selvatichezza,
diffondere la pace e migliorare le leggi.
53.
Tre sono le virtù speciali della saggezza: generosità,
industriosità, e prudenza.
54.
Tre sono le cose che ostruiscono la saggezza: orgoglio, avidità e
timore.
55.
Tre i sinonimi di saggezza: necessità, modestia, e utilità 56. Tre
sono le dimostrazioni di saggezza: credere alla ragione, credere
all'immaginazione, credere al miglioramento.
57.
Tre sono le conseguenze della saggezza: immaginazione, risolutezza,
e lo sforzo.
58.
Tre sono le qualità che mostrano saggezza: soffrire in maniera
discreta, perdonare le ingiurie, e ricercare la conoscenza.
60.
Tre sono le certezze della saggezza: memoria, riflessione e
comportamento.
61.
Tre sono i segni della saggezza: semplicità, sforzo e lunga
sofferenza.
62.
Tre sono le armonie della saggezza: generosità e abbondanza,
conoscenza e umiltà, e valore e clemenza; e non è nè un Viandante
nè un saggio quello in cui tali cose non vivono in armonia.
63.
Tre sono i fondamenti della saggezza: discrezione nell'apprendere,
memoria nel trattenere, ed eloquenza nel raccontare.
64.
Tre sono le cose che rafforzano la mente e la ragione: vedere molto,
riflettere molto, e resistere molto.
65.
Tre sono le cose che abbelliscono la mente: l'avversione nei
confronti della pazzia, una virtù provetta, e il desiderio di
apprendere.
66.
Tre sono le risorse di un Viandante: intelligenza, amore e
preghiera.
67.
Tre sono le cose che un viandante che desidera imparare deve fare:
ascoltare attentamente, contemplare con attenzione e stare in
silenzio continuamente.
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