Le origini celtiche della simbologia templare

 

di Giulio Malvani
- a cura di Federico Giovenzana -
tratto da Revue d'Histoire Celtique

L'origine lontana delle genti dette "celtiche" è tuttora un argomento controverso, sebbene le principali scuole archeologiche concordino con la visione di un ceppo indoeuropeo che, dopo un più o meno lungo stanziamento nelle steppe caucasiche a contatto diretto con popolazioni scitiche, si sarebbe messo in marcia verso il Centro-Europa, giungendovi alfine attraverso i Balcani e dilagandovi attraverso la pianura Padana e il corso dell'alto Danubio. Ma prima, in quell'oscura epoca che vide genti indoeuropee invadere l'egitto e farvi fiorire la civiltà, fondare gli imperi degli Hittiti e dei Marcomanni, dilagare in Grecia dando il via alla "cultura classica" e colonizzare il Lazio ponendo le basi della grandezza di Roma; prima di tutto ciò, chi erano questi "indoeuropei"?
Un originale contributo alle possibili risposte a questa domanda viene qui presentato dall'intervento del Dottor Farinacci, che certo in futuro farà molto discutere. Venendo a contatto con i popoli megalitici che già popolavano l'Europa i Celti, più di altri gruppi indoeuropei, vi si mescolarono e ne assorbirono profonde conoscenze matematico-astronomiche che ancora oggi affascinano gli archeoastronomi.
"L'enigma della stele di Turoe" scritto dal Dottor Adriano Gaspani, ormai noto su queste pagine, ci avvicina un po' di più proprio a questo tipo di problematiche, ponendo l'accento sui dati archeologici e sulle domande senza risposta che da essi scaturiscono.

Circa l'origine dell'Ordine del Tempio, l'unica fonte seria di cui disponiamo è la Storia delle Crociate di Guglielmo di Tiro, dove così si legge:
"...nelle mani del Patriarca di Gerusalemme votarono castità, povertà e obbedienza... e furono soprattutto due cavalieri il cui nome era Ugo de Paiens, di Troyes e Goffredo di Saint Omer, e gli altri mostrarono di fare la medesima cosa."
Ma chi furono questi altri? Di sicuro non si sa, di solito si fanno i nomi di Pagano di Montdidier, di Arcibaldo di Saint-Amand, di Andrea di Montbard (zio di San Bernardo), di Goffredo di Bissot (o Bissol), di Ugo di Champagne e di Tibaldo conte di Brie (anch'essa località dello Champagne). Comunque sia, sono tutti cavalieri francesi e fiamminghi provenienti, in gran parte, da quel bacino idrografico le cui acque vanno, a nord-ovest, nella Manica. È importante questo?
Sì, perché queste terre, a differenza di quelle più latinizzate della Provenza e, subordinatamente della Borgogna, avevano maggiormente conservato l'impronta dell'antica civiltà celtica (o gallica, che è la medesima cosa). Quell'impronta cioè (cito le parole di J. Markale) "che ha dato al mondo occidentale il gusto dell'avventura e del rischio, opponendosi alla staticità della civiltà greco romana. Non si è tentato nulla di grande che non affondi le radici nel pensiero celtico. Esiste, alla base di questo atteggiamento, una forza dinamica che rifiuta la quiete, spezza gli angusti limiti dell'arbitrio della ragione, sempre immobile. Il Celta si nutre del passato per costruire l'avvenire e ha sempre lo sguardo volto al difuori, al disopra del reale, verso il mito di Avallon e la magica Terra dell'Eterna Giovinezza (che altro non è se non il nostro Regno dei Morti)".
Una tale mentalità, è evidente, ben si presta di fare da supporto all'ardito sogno templare che, come noto, si propone di conquistare il Paradiso con la forza delle armi, fidando unicamente in se stessi e nell'aiuto della Beata Vergine Maria, la più nobile e pura di tutte le Dame, e come tale la sola degna di essere invocata ed amata dall'Alta Cavalleria. I Templari: ossia, dunque e con ogni probabilità, dei cavalieri nelle cui vene scorreva il sangue dei Celti...


Ma dove possiamo trovare qualcosa che consenta di convalidare questa ipotesi?
Nella letteratura celtica, è ovvio, ma non in quella di Francia (del tutto inesistente) bensì in quella delle Isole Britanniche, ossia in quella gallese ed irlandese (le uniche giunte a noi). Terre, queste del Galles e dell'lrlanda, forse troppo lontane dalla Francia, dalla culla geografica del Tempio? Oggi forse sì, ma non certo al tempo dei Celti o del medioevo, poiché allora la Manica univa assai più che separare, sì che le terre continentali della Gallia del nord-ovest (ossia del bacino della Manica) formavano praticamente un tutt'uno con quelle insulari della Gran Bretagna, e su entrambe le sponde abitavano popoli di stirpe celtica, resi ancor più fratelli dall'avere spesso subìto, nel corso dei secoli, le medesime traversie.
Alcuni episodi confermano l'asserto:
- quando Cesare (nel 57-56 a.C.) sottomette Belgica, Bretagna e Normandia, molti abitanti di quelle terre si rifugiano in Inghilterra;
- nel 55-54a.C. Cesare sbarca in Gran Bretagna, soprattutto per togliere ai Galli ogni illusione circa la forza dei loro fratelli isolani e la conseguente possibilità di ricevere aiuti da parte di questi;
- IV-IX sec. d.C.: le invasioni dei Sassoni e dei Normanni (o Vichinghi) attivano un continuo flusso migratorio dalle isole britanniche verso il continente, con particolare riguardo alla penisola brettone;
- 1066: battaglia di Hastings, a seguito della quale il duca di Normandia (Guglielmo il Conquistatore) diviene anche re d'Inghilterra (si noti come in tale occasione l'esercito di Guglielmo fosse costituito, per oltre un terzo, da Brettoni, ansiosi di rimettere piede su quelle terre da cui erano stati cacciati, come sopra si è detto);
- 1154: Enrico II Plantageneto cinge la corona d'Inghilterra ed unifica, sotto il suo scettro, le terre dell'isola con quelle continentali ed avite dell'Angiò e della Normandia (sulla Manica) nonché con quelle dell'Aquitania e del Poitou (affacciantesi sull'Atlantico e portategli in dote da Eleonora d'Aquitania).
"Allora, - nota un cronista, - alla corte di Londra si parlava francese non meno che a Parigi".
A riprova della comunione spirituale a quei tempi esistente fra i popoli d'Inghiterra e quelli della Gallia sul versante della Manica (della culla del Templarismo, cioè) si ricorda come, subito dopo il Concilio di Troyes, il gran maestro Ugo di Payns abbia iniziato la sua campagna di reclutamento -e di ricerca di fondi- recandosi in Normandia e, subito dopo, in Inghilterra. Il ricordo di tale viaggio è negli Annali del monastero di Waverlia, dove si legge:
"... in quell'anno (1128) venne in Inghilterra Ugo de Payns, Maestro della Milizia del Tempio di Gerusalemme, accompagnato da due cavalieri e da due chierici, e percorse tutto questo paese fino alla Scozia, reclutando per Gerusalemme, e molti presero la croce e partirono, in quello e nell'anno seguente, per Gerusalemme".
L' anno dopo Ugo de Payns si recò nell'Angiò, mentre Goffredo di Saint-Omer percorse la Fiandra.
Tutte terre celtiche, dunque, poiché qui - fra i Celti e gli eredi dei Celti - era più facile trovare gente battagliera, generosa, impulsiva, entusiasta e soprattutto desiderosa di instaurare, fin da questa vita, stretti contatti con l'Aldilà. Quell'Aldilà che i Cristiani chiamavano "Paradiso", e che i Celti menzionavano con innumeri e dolcissimi nomi, testimonianti la loro aspirazione ad una vita di assoluta spiritualità (essi lo dicevano, ad esempio, MagMell, "la piana meravigliosa"; Mag Findargat, "la piana d'argento bianco lucente"; Argatnel, "la nuvola d'argento"; Avallon, "l'isola dei pomi del divino sapere"; "castello delle pulzelle", dove le "pulzelle" erano le anime pure e incontaminate; e via dicendo, con infiniti nomi quasi che l'Aldilà fosse il loro unico amore).

I Templari: ossia l'ultimo grande rifiorire della mentalità e soprattutto della sensibilità celtica.
Una conferma di questo asserto la troviamo nel fatto che i misteri di Bafometto, di Baussant, dell'antico sigillo con due cavalieri su un solo cavallo, e dell'orrendo e blasfemo rito contro il Crocifisso, tutto ciò, dunque, come vedremo, può essere spiegato solamente alla luce della cultura e della tradizione celtica. Cominciamo, dunque, da Bafometto.
Bafometto: quell'orrido idolo che (secondo le accuse ufficialmente mosse ai Templari) "ha la forma d 'Ima lesa d 'Momo con una gran barba, e viene baciata e adorata nei capitoli provinciali".
Innumeri sono state le ipotesi fatte sulla sua etimologia e sul suo significato.
Fulcanelli ("Le dimore filosofali") lo dice essere I 'emblema completo delle tradizioni dell'Ordine, usato come paradigma esoterico, sigillo della cavalleria e segno di riconoscimento; si tratterebbe dunque, secondo il grande alchimista francese, di un simbolo dell'Arte Reale, e il suono ne deriverebbe dal greco hafeùsnlétis che vuol dire "colui che tinge, ossia che conferisce la saggezza". "Bafometto appare quindi - conclude Fulcanelli - come il geroglifico completo della Scienza, rappresentata del resto dalla personalità dell'antico Pan, immagine mitica della Natura in piena attività".
Lo Charpentier ("I misteri dei Templari") propone la derivazione etimologica da "Mahomet", e similmente Demurger ("Vita e morte dell'Ordine dei Templari"), concordando col Sicci, dice che la parola Bafometto altro non è che la corruzione di Maometto, e va intesa come il segno della conversione all'Islam di parte dei cavalieri del Tempio. A citare le ipotesi (o meglio: i voli di fantasia, poiché nulla le suffraga) si potrebbe continuare a lungo.
Ma la realtà è assai più semplice e, per scoprirla, è sufficiente ricercare il significato della "testa mozza" presso i Celti (significato peraltro comune a tutti i popoli che affondano le loro radici nelle "terre della steppa", poiché è là che il culto dei crani ha avuto origine). Anche i progenitori dei Romani venivano di là, dalla steppa; per questo quando, durante gli scavi per le fondamenta del Tempio di Giove Optimo Maximo, venne alla luce una testa umana, il fatto fu interpretato come favorevole auspicio e si predisse che il luogo (Capitolium, da caput humanum) sarebbe divenuto "la testa" dell'Impero. Anche molte chiese cristiane - sorte in siti di forti tradizioni celtiche - fanno ampia mostra di teste e di crani scolpiti; tra le molte si ricordano quella irlandese di Clonfert e quella svizzera di Payerne, entrambe medioevali.

Non v'è poi chi non ricordi il famoso episodio di Alboino, che avrebbe costretto Rosmunda a bere in un calice fatto col cranio di suo padre Cunimondo, re dei Gepidi.
Insulto per il morto? No, tutt'altro, poiché il cranio era considerato ricettacolo dei poteri -intellettuali e spirituali- dell'uomo; per tale motivo si conservavano accura tamente le teste dei nemici uccisi, inchiodandole sull'arçhitrave della porta di casa con quelle dei valorosi, poi, si facevano preziose coppe nelle quali, col più profondo rispetto, si beveva il vino (bevanda magica) durante le grandi solennità. Le leggende celtiche sono piene di racconti in cui si parla del potere occulto dei crani.
Finn, il capo dei Fianna (mitici guerrieri d'Irlanda), apprende molte cose sul passato di Oisin, suo figlio, col solo imporgli le mani sul capo.
Un antico racconto gallese narra di Peredur - giovane e prode cavaliere corrispondente, a un dipresso, al nostro Parsifal - che, entrato in un castello, avrebbe assistito ad una strana processione: prima due valletti con una enorme lancia da cui colavano tre rivi di sangue; poi due fanciulle che portavano un vassoio sul quale si trovava la testa di un uomo immersa nel suo sangue e qui, come si vede, la testa mozza tiene l'esatto, magico e salvifico ruolo che la coppa del Graal avrà poi nella letteratura cristiana.
Assai interessante è il racconto (sempre gallese) intitolato "Branwen, figlia di Llyr", dove si menziona un mitico eroe, Brân, che prossimo a morte per una ferita di lancia awelenata, avrebbe ordinato ai suoi amici di tagliargli la testa, dicendo "prendete la mia testa e portatela con voi; per voi essa sarà una compagnia piacevole, e ne avrete gioia come se io fossi con voi; inoltre essa sempre vi proteggerà e terrà lontano ogni flagello dalle vostre terre"; così realmente avvenne, sì che essi trascorsero il tempo nell'ahbondanza e nella letizia, e per quante sofferenze avessero viste, per quante ne avessero patite, non ne serbarono memoria, come più non ricordavano alcun dolore al mondo.
Quanto ai Germani, parenti stretti dei Celti (...), è nota la strofa XLVI del canto della "Voluspà" ("la veggente") in cui si descrive l'atmosfera cupa regnante nelle Alte Aule degli Dei all'approssimarsi del Ragnarok (il Crepuscolo degli Dei, ossia la fine di questa Era, di questo nostro Mondo); così vi si legge: "liete si apprestano a combattere le Forze del Male e già calpestano il Ponte che adduce ai Troni degli Dei; il destino ormai sta per compiersi e Heimdallr, il santo custode, suona a gran forza il grande corno di guerra; in silenzio, Odino conversa con la testa di Mimir e da lei cerca consiglio". Grande era ritenuto infatti il sapere delle teste dei morti: se le si interrogava in maniera opportuna, tutto da loro si poteva apprendere. M.Eliade, noto studioso di storia delle religioni, sottolinea come "la divinazione a mezzo della testa mummificata di Mimir ricordi la divinazione mediante i crani di antenati sciamani praticata dagli Yukaghiri delle steppe asiatiche".
Ma questo non deve meravigliare poiché entrambe le culture (la celtica e la germanica) hanno conservato numerosissimi ed evidenti tratti sciamanici. Anche il Cristianesimo, come noto, ha sempre onorato una testa mozza, quella del Battista, il che spiega il grande culto riservato a tale Santo proprio dai Templari. Questo è dunque il significato del famoso idolo, Bafometto. A conferma di tale ipotesi, ecco ora quella che sembra essere la sua corretta etimologia: dall'anglosassone hoff n mat che vuol dire "il sapiente opaco"; opaco e dunque "morto, ormai entrato nei Regni dell'Aldilà (..) la sapienza che è insita in ogni testa mozza", potremmo più chiaramente dire.

Anche il Baussant, il famoso vessillo templare, trova la sua spiegazione nella tradizione celtica. Anzitutto due parole sull'etimologia che non va ricercata, come è stato fantasiosamente proposto, né in beau sang (il bel sangue"), né in vaut cent ("vale cento"), ma assai più semplicemente nell'antico termine baussant che compare nel vocabolario francese e significa "di due colori"; inizialmente fu applicato al mantello dei cavalieri, poi fu esteso all'araldica quale sinonimo di "bipartito". Questa è, dunque, l'etimologia.
Circa il suo significato filosofico, risulta chiaro dal racconto irlandese "La razzia del bestiame di Cooley" ("Táin Bó Cuailnge") da cui apprendiamo come, un tempo, vi fossero due grandi amici, tra i quali però la malignità della gente seminò l'invidia, sì che presero a combattersi senzaposa assumendo le sembianze di vari animali, con valenze sia positive che negative, infine si trasformarono in due splendidi tori, uno bianco immacolato ed uno tutto nero (detto, quest'ultimo, il "bruno di Cuailnge"). Tremenda fu la lotta fra i due tori ed il Nero nella sua furia tutto distrusse attorno a lui (anche le Forze del Male); poi entrambi morirono e nessuno poté dire chi fosse stato il vincitore. L'insegnamento del racconto (tutto scandito sul duale, vera "fissazione" celtica!) è evidente: tutto, quaggiù, è determinato dalla lotta tra due principi, Bianco e Nero, ossia Vita e Morte, Creazione e Dissoluzione; all'ultimo -alla fine del Mondo- sembrerà che prevalga il Nero, la Dissoluzione, ma in realtà non sarà così poiché essa -proprio in quanto principio dissolutore- distruggerà anche se stessa. Circa l'origine di tale contesa, nulla di preciso si può dire: infatti le due Forze all'inizio -ossia quando stavano ancora "nel grembo di Dio"- erano amiche fra loro e non perdevano occasione per amorevolmente aiutarsi a vicenda... ma poi tutto cambiò... o forse no, forse anche ora, quaggiù, nulla è cambiato poiché le Forze di Vita -col loro fascino luminoso- prepotentemente ci attirano verso l'Alto, mentre le Forze della Dissoluzione, con gli infiniti dolori che ci procurano, costituiscono i gradini necessari per compiere la difficile ascesa.
Altro racconto celtico, assai istruttivo per quanto attiene la dualità, è quello intitolato "La navigazione della barca di Maèl Dùin", dove si narra di un'isola divisa in due da uno steccato di bronzo (bronzo: metallo di morte e di dolore, e quindi simbolo della crudele Legge del Divenire). Da una parte dello steccato vi era un gregge bianco, dall'altra uno nero. Un gigante separava le greggi. Ogni volta che metteva una pecora bianca al di là dello steccato fra le pecore nere, essa diventava subito nera; e ogni volta che una pecora nera era messa fra le bianche, subito diventava bianca. Il significato è chiaro: il gigante è il Fato, è l'imperscrutabile volontà di Dio, quella che a suo piacere provoca il cambiamento di colore delle pecore, ossia trasmuta le Forze di Dissoluzione in Forze di Vita e viceversa. Ma noi, poveri uomini, come potremo mai stabilire ciò che è Bene e ciò che è Male? Altro non ci resta che vivere la nostra vita di lotte e di sofferenze in umiltà, senza mai azzardare giudizi sul comportamento del nostro prossimo...
"Non giudicate e non sarete giudicati", è stato infatti detto da Gesù; ed i Templari, ossequienti a questo comandamento, mai hanno esitato ad accogliere gli scomunicati nelle loro file, né ad intrattenere amiche voli rapporti con i seguaci dell'Islam.
Baussant, ovviamente, compare anche nel grande gioco celtico, quello degli scacchi, che si svolgeva su una scacchiera detta fidchell ("il legno dell'intelligenza") ed era appannaggio degli Dei, dei Re e dei guerrieri: ossia di coloro i quali, manovrando opportunamente le Forze del Bianco e del Nero, potevano determinare le sorti dei popoli (per l'enorme diffusione di questo gioco presso i Celti ed i Germani, si veda, ad esempio: Edda, Voluspà, VIII e LXI; il racconto irlandese de "Il sogno di Ronabwy"; i racconti irlandesi de "Il corteggiamento di Étain" e "La battaglia di Mag Tuireadh"; e così via).
Ma Baussant -se considerato sotto l'ottica celtica- fornisce un altro importante ammaestramento, in perfetta sintonia con la filosofia cavalleresca. Baussant, lo stendardo dai due colori... ma cosa separa fra loro questi due colori, che possono essere intesi come simboli del Mondo (il Nero) e del Sovramondo (il Bianco)? Li separa solamente una linea, una sottilissima linea, e chi saprà superarla diverrà purissimo Eroe, signore del Cielo e della Terra (o di "entrambe le spade", per usare la terminologia del Graal). Ma come si fa a superare questa impercettibile linea (linea adombrata, in altri racconti, dal "guado periglioso", dal "ponte sottile come il filo di una spada", dalla "porta che si apre per una frazione di secondo e poi subito si chiude"; Gesù, nel Vangelo di Matteo, le dà il nome di "porta stretta", ed è la porta della Morte)? Un metodo c'è, per attraversarla, ed i Celti ne parlavano come di avanture.
Avanture (da noi si dice "avventura", ma il senso è troppo materiale, e quindi ristretto e limitativo) è un'impresa straordinaria in cui uno è chiamato a dare alta e nobile prova di sé, della sua capacità di trascendere le normali limitazioni umane: la paura della Morte e dell'Ignoto, in primo luogo. Cercare l'avanture: ossia balzare in sella, armarsi di lancia e spada e gettarsi a capofitto nella mischia, tanto meglio se si è stanchi e soli, se i nemici sono molti e agguerriti. Tanto meglio: perché allora maggiormente rifulgerà il nostro potere spirituale (è sempre il nostro Spirito che domina la Materia!) e Dio si manifesterà in noi dando forza al nostro braccio e aiutandoci a sviare i più pericolosi colpi dell'avversario. L'avanture: ossia l'irruzione del Sacro nel Profano, la fusione, in un unico colore, del Bianco e del Nero di Baussant. L'avanture: è per suo amore che i Templari -secondo Giacomo di Vitry- "tutte le volte che li si chiamava alle armi, mai chiedevano quanti fossero i nemici, ma unicamente in qual luogo essi si trovassero".

Veniamo ora alla questione dell' antico sigillo templare raffigurante due cavalieri montati su un solo cavallo, e sul quale molti si sono commossi pensando che i primi Templari fossero così poveri da non avere neanche un cavallo a testa!... Assurdo!
Si tratta invece di un simbolo "duale" che si riporta, per di più, all'antica cavalleria celtica, così descritta da Gerhard Herm ("Il mistero dei Celti"): "sul cavallo stavano due cavalieri: l'uno lanciava i giavellotti durante la carica e quindi smontava, l'altro, tirato da parte e impastoiato il cavallo, dava di piglio, come il compagno, alla spada o alla lancia".
Celtico è altresì -come significato- quel famoso rito blasfemo di cui così si legge nelle accuse rivolte ai Templari: "quelli che sono ricevuti nell'Ordine... vengono condotti dietro l'altare e in Sacrestia, e il Maestro mostra loro la Croce con la figura di Nostro Signore, e ordina loro di rinnegarlo tre volte, e per tre volte di sputare sulla Croce". Già quell' insistere sul numero tre dovrebbe metterci sull'avviso, poiché la triade indica un modo di pensare tipicamente celtico (per i Celti, infatti, ogni essere, ogni cosa, ogni concetto è trino e suscettibile di essere inteso, e di manifestarsi, su tre piani diversi); di conseguenza anche il rito di cui trattasi è da ritenere celtico e indubbia mente connesso con quei "riti di iniziazione guerriera" che prevedevano una iniziale presa di contatto con le Potenze degli Inferi (ossia con gli avversari di Cristo, Signore dei Cieli e della Vita). Per questo Cú Chulainn, il mitico eroe irlandese, per imparare l'arte dei guerrieri dovette scendere nel Paese delle Ombre e qui recarsi dalla loro regina, Scathach "la Tenebrosa". Anche Finn, il comandante dei Fianna d'Irlanda, per vincere il Re del Mondo (Signore di ogni Negatività) fu costretto ad inviare un messaggero nel Regno dei Morti per cercarvi la magica spada forgiata dal fabbro dei Fomori (ossia le Forze Infere e di Dissoluzione per eccellenza). Il guerriero, infatti, deve divenire maestro nell'arte di uccidere e quindi non può fare a meno -almeno inizialmente- di prendere stretto contatto con i Demoni della Morte e di ogni Negatività... poi, però, dovrà riscattarsi impiegando la sua spada unicamente a fin di bene e mai per sé, ma per gli altri o, meglio ancora, per l'infinita gloria di Dio.
Per questo il motto dei Templari era: "Non a noi, Signore, non a noi, ma unicamente al Tuo Santo Nome dai gloria!". Per questo -similmente e come già accennato- i Templari grandemente onoravano San Giovanni Battista: si diceva infatti che anch'egli, dopo morto, fosse sceso agli Inferi, per familiarizzare con i Demoni e predicare fra loro la dolce Parola di Gesù (e il Suo sarebbe stato il "Quinto Vangelo", a noi ignoto). Squisitamente celtico, infine, è l'appassionato culto templare per la Vergine Maria. Nessun popolo, forse, ha onorato la Donna più dei Celti che vedevano in lei quasi un trait-d'union con l'Aldilà, poiché la riconoscevano più pronta dell'uomo a percepire le voci dell'Occulto, forse in virtù di una maggiore sensibilità psichica e di un più raffinato, misterioso intuito. Per questo il guerriero riceveva le armi da una Dama, e spesso la filiazione uterina faceva premio su quella paterna; per questo accanto ai collegi dei Druidi si trovavano comunità di sacerdotesse celtiche, e ovunque la donna partecipava alla vita da pari a pari con l'uomo, specie se questo era suo sposo. Per questo, pur essendo la religione celtica squisitamente solare, la somma divinità era una Dea; a chi chiedeva loro ragione di tale apparente contraddizione, essi rispondevano: "Così è anche nel volgere del giorno: il Sole è superiore alle tenebre della Notte, ma è dal mistero di queste che Egli si leva radioso ogni mattino".
Il culto della Vergine Madre presso i Templari: per ben comprenderne l'intensità, nulla vi è di meglio che rileggere gli antichi regolamenti dell' Ordine, in cui è scritto: "le orazioni a Nostra Signora si devono recitare ogni giorno, per prime, nella Magione, salvo la compieta di Nostra Signora che si recita tutti i giorni, nella Magione, per ultima, poiché nel Nome di Nostra Signora ebbe inizio il nostro Ordine, e in Suo onore, se Dio vuole, sarà la fine della nostra vita e dell'Ordine stesso, quando a Dio piacerà che ciò accada".
Nostra Signora: in Irlanda la si diceva Morrigán ("la grande Regina"), e presiedeva alla Vita e alla Morte; era altresì possente Signora della Guerra, là dove Vita e Morte sempre inestricabilmente si fondono. Un altro inequivocabile indizio delle radici celtiche dei Templari si ha nella concezione del "monaco-cavaliere". Per noi, abituati alla tripartizione indoeuropea (che vuole la società scandita in tre classi: oratores, bellatores e laboratores), l'idea sembra un po' strana. Ma non così per i Celti, abituati da sempre a vedere nei Druidi dei sacerdoti guerrieri e, nei guerrieri, dei Druidi in armi (si veda, ad esempio: Mago Merlino che, alla testa dei cavalieri di Re Artù, combatte sotto le mura di Carohaise; , il druido di Re Nuada, che muore per le ferite riportate alla battaglia di Mag Tuireadh; e Finn il grande guerriero d'Irlanda, che in più occasioni si dimostra assai esperto nelle arti druidiche: era infatti suo compito difendere la Patria non solamente contro gli attacchi degli uomini, ma anche contro quelli degli Spiriti cattivi.
Né il Cristianesimo (almeno nei primi tempi) riuscì a modificare molto le cose, poiché gli abati irlandesi continuarono ad officiare con la lancia in pugno, ed i monaci a cingere la spada (così, ancora nel XII secolo, riferisce un chierico gallese). Sempre, là dove erano ancora vive le tradizioni celtiche, si ragionò così: poiché giustamente si riteneva che la guerra fosse cosa non da uomini ma da Eroi, sì che per combatterla occorrevano guerrieri capaci di trascendere la condizione profana e di prendere contatto col Mondo del Sacro. Occorrevano, insomma, "monaci-cavalieri": i Templari, dunque.